Le nuove disposizioni per i minori stranieri non accompagnati
24 Ottobre 2023
L’accordo Italia-Albania sui migranti e le altre politiche di esternalizzazione
1 Novembre 2023
Le nuove disposizioni per i minori stranieri non accompagnati
24 Ottobre 2023
L’accordo Italia-Albania sui migranti e le altre politiche di esternalizzazione
1 Novembre 2023

Una testimonianza da Lampedusa

Carrillo

“Ho accompagnato mia sorella, ginecologa, a Lampedusa in occasione dei suoi turni di guardia come responsabile dell’ambulatorio territoriale di emergenza ginecologica. Questo è un racconto, molto personale, di quanto ho visto, ascoltato, raccolto.”  

Lampedusa 2023. 7-11 giugno – 14-21 ottobre 

 

L’isola è sempre la stessa, brulla, spoglia, labirintica, parziale, una pietra in un immenso azzurro. 

A giugno c’è il cielo plumbeo, il mare grosso, partono poche barche, dottoressa. Ad ottobre c’è il cielo azzurro, il mare grosso, partono poche barche, dottoressa. In mezzo sono partite tantissime barche, si raccontano giorni terribili. L’hotspot ha sparso in giro le sue prede, era finito il cibo, gli operatori avevano abdicato: anche la CRI, che è una macchina da guerra, come sai. 

Ma adesso ci sono pochi sbarchi, nessun numero straordinario, gli operatori del PTE (Presidio Territoriale Emergenze) parlano di quiete, i pochi che possono ne approfittano per raccontarsi, scappare al mare, fare il bagno, velocemente e vicino alla riva perché sono reperibili. Gli altri, quelli che devono rimanere in loco, come dicono con auto-ironia camminano per i corridoi vuoti, sono un po’ addormentati. Chissà perché poi gli sbarchi avvengono solo di notte, penso. Non avvengono solo di notte, è che quelli di notte fanno più scruscio (rumore) sono più pericolosi, per tutti. 

La procedura è semplice. Le imbarcazioni, quelle piccole di legno, quelle più grandi di ferro arancioni, che sembrano già arrugginite alla partenza, o anche quelle che arrivano dalla Libia vengono solitamente soccorse dalla guardia costiera, che allerta i medici dell’emergenza sbarchi del PTE. 

Parlo con A., un operatore del soccorso marino, mi racconta un po’ di cose. Ognuno ha il suo ruolo, dice, ma lui è tra quanti entrano in acqua, io però, fortunatamente, finora, non ho mai dovuto recuperare il cadavere di un bambino. A un mio collega è successo, è bruttissimo…e mentre racconta fa, pensando di non essere visto, gli scongiuri di rito. Mi ripete che però capita, come capita anche che le mamme li facciano scivolare in acqua, i loro figli morti, quando si trovano da sole in mezzo al mare. Mi racconta di una signora della Guinea, che appena salita sulla barca della guardia costiera si è sentita male, stava viaggiando con il figlio di 3 anni e il marito. Ha partorito una bimba, là, nel tratto di mare tra il punto del ripescamento e il molo Favarolo. Si chiama Fatima.  

Un’altra signora, però, è salita a bordo con un sacchetto, dentro c’era un feto con la sua placenta. Erano il suo feto e la sua placenta, aveva partorito in barca.  

L’attracco della barca è il momento più difficile, le donne sono mine impazzite. Vogliono scendere immediatamente, cercano di scavalcarsi, una sull’altra, anche sopra i bambini, non esiste solidarietà in quel momento. Sono quelle che mettono a rischio la tenuta della barca. A. sottolinea che, dalla sua esperienza, l’ordine di discesa dalla barca sarebbe ben diverso, con gli uomini…i tunisini… che scenderebbero per primi e in ultimo le donne e i bambini, ma sono LORO, le guardie, quelli che mantengono l’ordine.  

Giunte al molo, il triage è una procedura semplice, le persone vengono fatte scendere e divise in file, mentre i medici, coadiuvati dagli operatori di Fontex, INMP, OIM…, controllano che tutti stiano bene, possano camminare, che non ci siano donne gravide. Lo spaesamento è generale, mi spiegano che è anche dovuto alla disidratazione, le persone sono come instupidite. Non tutti/e hanno i piedi nudi, ma tutti/e hanno strati e strati di abiti addosso. Abiti fradici, di acqua, benzina, umori, paura, abiti maleodoranti. Alcune donne si tengono strette una borsa, di solito piccola. Dentro ci sono i documenti. Una ragazza siriana di 30 anni, arrivata coi 4 figli e il marito mi appare tutta in ordine, mi domando come faccia, ma poi il mio sguardo si posa sulla borsetta, le mani che la stringono sono bruciate dal sole, dal mare, dalla benzina. 

Appena sbarcati, c’è chi si ferma a pregare, chi a baciare la terra.  

Chi ha bisogno di cure immediate viene portato/a al PTE, le altre persone vanno all’hotspot dove oltre all’identificazione riceveranno cibo, vestiti, la possibilità di docciarsi. 

Le donne incinte vengono portate al PTE, per controllare la gravidanza e verificare che non debbano essere trasferite in elicottero a Palermo. Arrivano sempre da sole, anche quando hanno il marito con loro, le accompagnano solo i loro figli. All’inizio mi stupisco che non si parlino tra di loro, sono poche quelle che si fanno coraggio insieme. Poi mi ricordo che sono donne diverse, hanno origini diverse, parlano lingue diverse. Condividono un pezzo di storia, la più difficile da raccontare. Qualora debbano lasciare Lampedusa è sempre una cosa veloce, c’è poco tempo, veloci, veloci, dai, dille che va tutto bene, che non si preoccupi, che stanno aspettando lei. Però glielo dico io, non si trova la mediatrice, l’elicottero non può aspettare. Non si preoccupi avvertiremo noi suo marito, si…va bene, capiamo che lui non ha un telefono, si, ok neanche lei, tranquilla riusciremo, non pianga signora, non pianga va tutto bene….qualcuno glielo spiegherà. A tutti qualcuno spiegherà che non si sa quando e dove si rivedranno, si parleranno.  

Vanno a Palermo, in ospedale, con i loro figli. I mariti non possono andare perché non avrebbero dove stare. I bambini sì, invece. Madri e bambini staranno ricoverati per tutto il tempo che sarà necessario: anche settimane. Non si sa per quanto, ma si sa che arrivano là con niente e nessuno le andrà a trovare o portare qualcosa. Ma i bambini saranno liberi di scorrazzare per i corridoi dell’ospedale, giorno dopo giorno.  

Dall’altra parte dell’isola, l’hotspot; a giugno in rifacimento, a ottobre in svuotamento. A giugno la CRI prendeva il posto di Badia Grande, che aveva avuto la gestione per alcuni anni. Quando vado li vedo in tanti con le loro tute rosse, è tutto in fermento, ripuliscono, ridipingono, ammucchiano materassi da eliminare e rifanno i tetti, la mensa, montano le tende dove si stabiliranno i diversi uffici. Nascosto, dentro un corridoio, una piccola stanza ospita due operatrici di D.I.RE (associazione donne in rete contro la violenza). Non fanno rumore, camminano tra le persone senza dare nell’occhio, avvicinano le donne, parlano in arabo, francese, inglese. Si presentano, non hanno aspettative sanno che è un percorso lungo e faticoso, ma avvertono che in Italia si può agire contro la violenza di genere, che la donna è tutelata. Spiegano cosa è, quali sono le sue manifestazioni. Una operatrice mi racconta che alla sede di D.I.RE di Brescia un giorno è arrivata una donna che aveva il volantino che aveva recuperato da lei, proprio qui tempo prima. Lo vedi perché lo faccio? Perché sappiano che possono chiedere aiuto. 

M., il mediatore del PTE, mi dice, vedi tutte queste persone qui in giro? Tutti quelli che sono venuti dalla Libia? Hanno tutti subito violenza. Abbiamo tutti attraversato l’inferno del deserto e delle prigioni. E se anche non hai subito tu stesso qualche violenza terribile lo hai visto capitare a chi era con te. Le vedi tutte le donne? Sono state tutte violentate, non importa se fossero coi mariti, figli, fratelli. È il modo per tenere l’ordine. In Libia sono troppo pochi i militari nei campi, l’ordine si tiene con la violenza. E tu la vedi e hai paura e vorresti scappare, non ribellarti 

E infatti sono molte le donne che non rispondono alle domande della ginecologa a proposito della propria gravidanza, che hanno uno sguardo spento, passivo. R. ha 31 anni e arriva all’ambulatorio con 3 bambini. La più piccola di 4 mesi deve essere medicata perché è rimasta ustionata durante il viaggio. R. ha bisogno di parlare, lo fa con M. il mediatore, non importa che sia un uomo, sa fare il suo mestiere, lei deve dire che è rimasta per 4 anni in Libia, i suoi figli sono nati là, uno dopo l’altro risultato di uno stupro. 

Forse la situazione è diversa, adesso, tra quanti arrivano dalla Tunisia. Siamo ad ottobre, non ci sono più le migliaia di donne e uomini sub-sahariani/e partiti/e da Sfax. Adesso arrivano per lo più uomini tunisini, pronti per i lavori nei campi. Alcuni parlano l’italiano, ci sono già stati in Italia, sanno cosa li aspetta e, dicono gli operatori, rivendicano con arroganza i loro diritti. Le uniche espressioni di intolleranza, raccolte un po’ ovunque, sono rivolte a questo gruppo …i tunisini però no, non sono come i subsahariani che sono gentili, educati…poveracci. I tunisini sono brutta gente. Ci mandano quelli che scappano dalle carceri, mi dice un informatore che lavora in un bar. Però è sempre un’umanità composita. Tra loro c’è anche S., arriva in ambulatorio, dopo essere stato accolto all’hotspot con la sua bambina di 15 mesi. La piccola non si muove, non parla, lui la tiene in braccio, affettuoso e protettivo. Dice che loro non la fanno camminare perché lei è fragile, si romperebbe. I medici si parlano, la bimba ha probabilmente una sindrome metabolica, va portata a Bologna. Viaggerà con loro anche la madre che li aspetta all’hotspot con il fratellino di 4 mesi, i medici si guardano, anche lui ha forse lo stesso problema. Ma sono qua per questo, hanno fatto un viaggio così pericoloso proprio perché volevano arrivare in un ospedale occidentale, per darle la cura.  

Dall’altro lato l’isola continua la sua vita, in parallelo. Mi raccontano che a luglio l’onda dei migranti ha inondato l’isola. Usciti dai confini dell’hotspot, dai pullman e dalle ambulanze, le persone hanno raggiunto i turisti, i residenti, costringendoli ad un pacifico urlo mediatico. Strano come tutte le persone con cui ho parlato mi riferissero di un rassegnato atteggiamento di aiuto, e cosa si poteva fare? Nessuno usa frasi insofferenti o polemiche – potrebbe essere il famoso bias dell’intervista – preferisco credere di no. Però i medici raccontano della criticità della situazione, della scarsità di farmaci, della incapacità dell’isola di sopportare questo immane impatto antropico. Sono aumentate le infezioni gastro-intestinali, le acque si sono contaminate, mancava il plasil...non c’era più niente, neanche nelle farmacie. 

Per il resto i due mondi camminano paralleli, gli uni non possono uscire, gli altri non chiedono. Sono pochi gli sbarchi che avvengono sugli scogli, ancona meno sulle spiagge. Lampedusa protegge il suo patrimonio economico. Però una dottoressa che intervisto, rianimatrice, mi racconta di uno sbarco avvenuto al crepuscolo mentre lei, da sola, faceva un bagno in mare in un angolo di scogli poco frequentato. Una barca non si allontana con le altre che, dopo aver fatto ammirare il tramonto, sbarcano orde di turisti che si preparano per l’aperitivo. Al contrario, punta esattamente su di lei, il racconto si fa irruento. Mi vergogno molto, sono scappata, mi sono fatta prendere dal panico, mentre avrei dovuto aiutare. Ho chiamato tutti quelli che potevo, ma chiusa dentro la mia macchina cercando di farmi piccola. Mi sembravano tantissimi, mi venivano addosso…e ovviamente non volevano niente da me, ma io non capivo niente. Poi, mi hanno detto che la mia è una reazione normale. Forse, ma a casa ho pianto come una fontana, e mi vergogno ancora adesso. 

Il mio racconto si conclude qua, perché non c’è una conclusione. 

Lampedusa rimane là, in mezzo al mare, i e le migranti invece al di là della linea dell’orizzonte in attesa di essere messi su una barca. 

 

P.S. noto, e mi confermano, che negli ambulatori, nelle navi di soccorso, le donne sono diventate le principali protagoniste. È una rete che si muove al femminile, da un po’ di tempo, dicono.

Daniela Carrillo è antropologa, da anni si occupa di donne e migrazioni. Collabora con Fondazione ISMU ETS e con l’Università di Milano Bicocca

26 ottobre 2023