La situazione in Grecia e la cooperazione con la Turchia
Il discorso sullo stato dell’Unione è intervenuto in un momento di acutizzazione della già grave situazione in Grecia, a seguito del devastante incendio divampato nel campo di Moira, sull’isola di Lesbo. Le condizioni di accoglienza dei migranti sulle isole greche, già caratterizzate da insostenibile e deplorevole sovraffollamento, si sono ulteriormente deteriorate nel contesto della crisi sanitaria. Occorre, poi, ricordare la situazione determinatasi alla frontiera greco-turca alla fine di febbraio, allorché il primo ministro turco annunciò che non sarebbero più stati fermati i migranti che ne tentavano l’attraversamento, disapplicando in pratica gli impegni convenuti nella controversa dichiarazione del marzo 2016 (per approfondimenti >>).
La reazione greca, di fronte alla minaccia di nuovi massicci ingressi attraverso il confine turco, non si era limitata ad impedire il passaggio, ricorrendo anche all’uso della forza, ma aveva inciso profondamente sull’attuazione del diritto di asilo nel paese, disponendosi la completa sospensione delle attività dell’Ufficio d’asilo greco, protrattasi dal 2 marzo al 15 maggio. Nell’adottare la misura il primo ministro greco aveva invocato l’art. 78, par. 3, TFUE, ai sensi del quale «qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati. Esso delibera previa consultazione del Parlamento europeo».
Un appiglio evidentemente infondato, non autorizzando in alcun modo la norma una sospensione unilaterale della legislazione UE, e delle garanzie ivi previste, e foriera di varie e severe conseguenze per i richiedenti protezione internazionale.
In un contesto di tale gravità, per la situazione verificatasi alla frontiera con la Turchia e per le violazioni dei diritti fondamentali, incluso del diritto di asilo, attuate dalla Grecia, l’Unione europea era intervenuta con un piano di azione, senza tuttavia condannare la posizione dello Stato membro. In visita in Grecia all’inizio di marzo, nell’esprimere empatica solidarietà dell’Unione europea, la Presidente della Commissione europea aveva dichiarato di non poter commentare la decisione della Grecia di sospendere le garanzie sul diritto di asilo. Il vicepresidente della Commissione europea Schinas aveva, d’altro canto, rilasciato una dichiarazione ribadendo l’intenzione dell’Unione europea di sostenere i paesi maggiormente esposti: «la Grecia si trova ad affrontare una situazione incredibilmente impegnativa senza precedenti. Questo difficile compito non può ricadere solo sulla Grecia: è responsabilità di tutta l’Europa. E dobbiamo dimostrare che l’intera Unione europea metterà la sua forza e il suo sostegno a sostegno degli Stati membri sotto estrema pressione».
Scemata l’attenzione mediatica nei mesi estivi, la situazione si è aggravata ulteriormente nelle ultime settimane, allorché a seguito delle rigide misure di isolamento, adottate in ragione della scoperta di casi di contagio da Covid-19 nel campo di Moira (il campo ospita 13.000 persone, a fronte di una capienza massima di 3000), è divampato un grave incendio che ha comportato l’evacuazione dello stesso, lasciando molti migranti (inclusi minori) privi di accoglienza.
La vicenda ha sollevato nuovamente il tema del ricollocamento dei migranti, a sostegno di quei paesi più esposti ai flussi. A fine luglio la Commissione europea aveva stanziato 17 milioni di euro per l’attuazione di uno schema di ricollocamento volontario dalla Grecia di richiedenti protezione internazionale, che prevede il trasferimento (entro fine ottobre) di fino a 3000 richiedenti protezione in condizione di vulnerabilità (minori non accompagnati, famiglie, persone con problemi di salute). Un numero evidentemente insufficiente ad alleviare una situazione di promiscuità e sovraffollamento (fino al 15 settembre erano, peraltro, state ricollocate solo 750 persone.
Tale situazione è stata ricordata dalla Presidente Von Der Leyen nel corso del suo discorso sullo stato dell’Unione, ove ha comunicato che la Commissione sta lavorando, insieme alle autorità greche, ad un piano per la costruzione di un nuovo campo sull’isola di Lesbo, manifestando l’intenzione di assisterle nelle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale e rimpatrio, al fine di renderle più veloci. In particolare, l’Unione europea dovrebbe sostenere l’avvio di un progetto pilota con la costruzione di un campo di accoglienza permanente sull’isola di Lesbo, gestito congiuntamente dalla UE e dalla Grecia. I dettagli sono ancora poco definiti, ma potrebbe preludere alla creazione di centri di accoglienza UE negli Stati membri.
Nessun cenno, tuttavia, al ricorso a meccanismi di ricollocamento oltre al programma volontario sovra menzionato. Solo alcuni Stati membri (Germania, Francia, Olanda) hanno manifestato la disponibilità ad accogliere i richiedenti sfollati dal campo di Moira.
Alla questione nel Mediterraneo orientale e alle complesse relazioni con la Turchia sarà dedicata un’apposita sessione nel corso della riunione del Consiglio europeo straordinario del 24-25 settembre. In preparazione, il 15 e il 16 settembre il Presidente del Consiglio europeo Michel si è recato in visita in Grecia (anche al campo di Moira).
La riforma del sistema comune europeo di asilo e il superamento del c.d. sistema Dublino
Nel discorso sullo stato dell’Unione, la Presidente della Commissione europea ha preannunciato la pubblicazione il 23 settembre del nuovo patto europeo sulla migrazione. La promozione di un nuovo quadro giuridico comune per lo sviluppo di tali politiche, comprensivo anche della riforma del c.d. sistema Dublino, costituisce parte integrante ed essenziale del programma della Presidente sin dalla sua designazione. La pubblicazione, annunciata più volte nei mesi scorsi, ed attesa con vivo interesse, è stata rimandata anche in considerazione dell’emergenza sanitaria. L’incendio divampato a Moira ne ha, tuttavia, evidenziato l’indifferibilità.
Pur senza svelare gli strumenti e i meccanismi che comporranno il nuovo Patto, la Presidente della Commissione ne ha anticipato le linee guida. Tra queste emerge l’ormai consueto richiamo alla solidarietà, che dovrebbe essere assicurata agli Stati più esposti ai flussi o che sono maggiormente coinvolti nel salvataggio di vite umane. Dall’altra parte, viene messa in luce l’intenzione di rafforzare il legame tra l’asilo e il rimpatrio, garantendo l’allontanamento ove non sussistano esigenze di protezione ovvero una migliore integrazione dei beneficiari. Tutto ciò in un quadro più strutturato di contrasto dei trafficanti, controllo delle frontiere esterne, cooperazione con i paesi terzi e creazione di percorsi di ingresso legali.
In attesa, quindi, di conoscere in maniera più dettagliata i contorni del nuovo patto, l’attenzione si incentra sull’attuazione di una solidarietà effettiva. La necessità di procedere a una ripartizione dei richiedenti è apparsa nuovamente cruciale proprio a seguito della situazione sull’isola di Lesbo. Le notizie riportate dai giornali evidenziano l’intenzione di dar vita a meccanismo di solidarietà obbligatoria. Pare opportuno, però, ricordare come proprio questo sia uno dei punti su cui si è arrestata la riforma del regolamento Dublino, sulla base della proposta presentata dalla Commissione nel 2016.
Frustrando le aspettative, il nuovo testo di regolamento “Dublino IV” non aveva mutato l’impianto complessivo del sistema, limitandosi ad introdurre dei meccanismi correttivi intesi a consentire una ripartizione dei richiedenti protezione internazionale, solo in presenza di specifiche circostanze. La proposta aveva, infatti, introdotto la possibilità di ripartizione degli oneri tra gli Stati membri, sostanzialmente sviluppando, ovvero meglio definendo, il meccanismo di ricollocamento attuato tra il 2015 e il 2017, laddove fossero superate determinate soglie, lasciando invariato il sistema al di fuori delle ipotesi di emergenza. Per superare le “resistenze” già mostrate verso il meccanismo di ricollocazione, si introduceva un assai controverso “contributo di solidarietà” (un importo di 250.000 euro per ogni richiedente non ricollocato). In realtà, il nuovo assetto, più che ad assicurare la solidarietà tra Stati membri, alleviando gli oneri dei paesi di frontiera, aveva il chiaro intento di scoraggiare, in ogni modo, i c.d. movimenti secondari, ovvero gli spostamenti dei richiedenti all’interno dell’Unione europea, in violazione dei criteri definiti dal regolamento. Tra i profili più critici si ricorda l’attribuzione di una competenza perenne in capo allo stato membro identificato, a fronte di un sistema attuale che pone un vincolo di 12 mesi, la semplificazione dei meccanismi di presa e ripresa in carico, per la cui attuazione diventava sufficiente una mera notifica, e l’applicazione di una serie di misure sanzionatorie di carattere procedurale e sostanziale, nei confronti dei richiedenti rei di elusione. Una proposta che aveva disatteso, quindi, ogni auspicio di maggiore condivisione degli oneri, aggravando sensibilmente la posizione dei paesi di primo ingresso.
Radicalmente opposta la posizione del Parlamento europeo, contenuta nel rapporto Wikström, approvato dalla Commissione LIBE nel novembre 2017. Il testo elaborato modificava profondamente la proposta della Commissione, superando definitivamente il criterio del paese di primo ingresso e prevedendo un meccanismo di redistribuzione, automatico ed obbligatorio, dei richiedenti giunti nell’Unione europea, basato su quote definite in ragione della popolazione e del PIL. Accogliendo gli auspici prospettati da diversi parti, il testo prendeva in considerazione le possibilità di integrazione successiva dei richiedenti protezione, consentendo di tenere conto di ragioni oggettive idonee a facilitare l’inserimento nel paese ospite. L’elemento distintivo di tale proposta era la concezione che il paese di primo ingresso non rappresentasse più solo il paese competente all’esame della domanda, e di tutta la successiva accoglienza, ma un luogo di approdo nell’Unione europea, coinvolta nella sua interezza ed obbligata a farsi carico di quel richiedente.
A fronte di questo significativo mutamento di impostazione, prospettato dal Parlamento europeo, era poi intervenuta una proposta formulata dall’allora presidenza bulgara che aveva riportato al testo originario, aggravando nuovamente la posizione del paese di primo ingresso. Tra le altre cose, il testo della Presidenza innalzava a 10 anni la durata della responsabilità in capo allo Stato membro individuato come competente e limitava sensibilmente, annullandolo nella pratica, la portata di quel meccanismo di ricollocamento attuabile nelle situazioni di emergenza, che diventava azionabile solo in situazioni estreme, potendo comunque essere bloccato dagli Stati membri ostili.
Le evidenti, sensibili, divergenze tra Stati membri non consentirono, nella concomitanza della scadenza della Commissione Juncker e delle elezioni del Parlamento europeo, di individuare una formula di compromesso per l’attuazione della prospettata riforma del sistema comune europeo di asilo, che venne tuttavia indicata tra le proprie priorità dalla neoeletta Presidente.
Un richiamo a riavviare il processo è venuto dagli Stati più interessati ai flussi, anche nella fase più virulenta dell’epidemia. Il 4 aprile, cinque Stati membri (Cipro, Grecia, Spagna, Italia e Malta) hanno diffuso un documento non ufficiale sulla riforma del regime comune europeo in materia di asilo, seguito il 9 aprile da una lettera indirizzata da Italia, Spagna, Francia e Germania ai commissari responsabili della migrazione Schinas e Johansson. Seppur con accenti diversi, entrambi i documenti sollecitavano un sistema obbligatorio che preveda una distribuzione equa e rapida tra gli Stati membri dei richiedenti asilo che arrivano irregolarmente nell’UE, nel rispetto degli articoli 78 e 80 del TFUE.
Sembra, pertanto, raccogliere tali istanze la proposta di cui si attende la pubblicazione. Nel corso del discorso sullo stato dell’Unione, la Presidente ha annunciato l’abolizione del sistema Dublino e la sua sostituzione con un nuovo meccanismo, anche obbligatorio. La proposta sarebbe già stata oggetto di ampie consultazioni con i paesi membri.
Cresce, quindi, l’attesa per il disvelamento dei dettagli operativi, ai fini dell’avvio di un processo negoziale che si annuncia irto di difficoltà, dovendo superare l’ostilità dei paesi del gruppo di Visegrad che paiono compatti nell’escludere obblighi di ripartizione.
Ma è evidente che il tema è cruciale. Le soluzioni proposte, e la capacità di mediare tra le discordi posizioni nazionali, rappresenteranno un nuovo, importante, banco di prova per la Commissione guidata da Ursula Von der Leyen e, in definitiva, per l’Unione europea.
22.9.2020
Alessia Di Pascale, Collaborazione scientifica settore legislazione Fondazione ISMU
Professore associato di diritto dell’Unione europea – Università degli Studi di Milano