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Prime note sul decreto-legge n. 20 del 10 marzo 2023

Prime note sul decreto-legge n. 20 del 10 marzo 2023 

Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale
dei lavoratori stranieri
e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare

 

Il decreto-legge 10 marzo 2023, n. 20, è stato adottato in risposta alla tragedia di Cutro del 26 febbraio secondo una logica di doppio binario: da un lato, misure di contrasto dell’immigrazione irregolare (articoli 5, 7, 8, 9, 10); dall’altro, misure volte a favorire l’immigrazione regolare (articoli 1, 2, 3, 4, 6).

Si propone un’analisi introduttiva volta a illustrare il contenuto delle sue disposizioni con qualche cenno anche a quelli che potrebbero essere i loro effetti e a possibili modifiche e integrazioni in sede di conversione.

Art. 1. Misure per la programmazione dei flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri

L’articolo 1 del decreto prevede la definizione delle quote per l’ingresso dei lavoratori stranieri in deroga alle disposizioni dell’articolo 3 del testo unico sull’immigrazione.

La logica è quella di adottare, fino al 2025, una modalità semplificata. Mentre l’articolo 3 del testo unico prevede un documento programmatico triennale e poi l’adozione di decreti flussi annuali, ciascun atto da adottare col proprio complesso procedimento, l’articolo 1 del decreto prevede un solo provvedimento per il triennio. Anche in questo caso il procedimento è complesso, ma c’è la semplificazione che deriva dall’adozione appunto di un solo atto, fatta salva la possibilità di successivi provvedimenti integrativi.

Formalmente la soluzione risponde alla logica di favorire l’immigrazione regolare.

Nell’articolo 1, così come negli altri del decreto, non si affronta però il nodo di fondo costituito dal fatto che, sinora, per la non corrispondenza dei meccanismi legali alle dinamiche dell’immigrazione per lavoro i decreti flussi di regola – fatte salve le quote degli stagionali – non sono stati utilizzati per l’ingresso di nuovi lavoratori bensì per la regolarizzazione di quelli già presenti senza permesso che, d’intesa con i datori di lavoro, li hanno appunto “usati” a tal fine (col datore di lavoro che fa la richiesta e lo straniero che ritorna nel suo Paese per completare la “pratica”).

Di conseguenza, le quote d’ingresso per il triennio varate con procedura semplificata potrebbero, contro l’intenzione dichiarata, dar luogo in concreto all’ennesima sanatoria.

L’ultimo comma dell’articolo 1 contiene poi una singolare disposizione sempre in materia di programmazione dei flussi. Si parla di quote riservate ai lavoratori degli Stati che, anche in collaborazione con le autorità italiane, promuovono campagne mediatiche indirizzate ai propri cittadini (ma sarà da intendersi: alla propria popolazione nel senso più ampio) “aventi ad oggetto i rischi per l’incolumità personale derivanti dall’inserimento in traffici migratori irregolari”. La previsione di agevolazioni legate all’impegno di questo o quello Stato a collaborare col nostro in materia migratoria non è una novità. La novità è costituita da ciò che si vuole valorizzare: campagne mediatiche sui rischi dell’immigrazione irregolare. A riguardo, è chiaro che non si pensa al Paese da cui parte la più parte dei “barconi” diretti verso l’Italia, ossia la Libia, dove le condizioni di contesto rendono impensabile lo sviluppo di siffatte campagne. Forse si pensa alla Tunisia o alla Turchia o magari anche al Senegal, ad esempio. Ma in ogni caso l’indicazione va incontro a due limiti: in generale si sopravvaluta l’efficacia di simili campagne; in particolare poi si muove, come spesso accade quando si parla di immigrati, dall’idea che gli interessati “non sappiano” quando in realtà invece essi sono spesso ben consapevoli dei rischi e si affidano ai canali irregolari perché vogliono comunque coltivare una speranza, venendo da situazioni talora addirittura drammatiche.

Art. 2. Misure per la semplificazione e accelerazione delle procedure di rilascio del nulla osta al lavoro

L’articolo 2 del decreto si muove nella stessa linea di cui all’articolo 1 nel senso che mira anch’esso a semplificare-accelerare le procedure relative all’immigrazione per lavoro. Mentre l’articolo 1 interviene a livello di programmazione dei flussi, l’articolo 2 interviene sulla disciplina riguardante il singolo lavoratore. Si stabilisce, ad esempio, che il nulla osta da parte dello sportello unico è rilasciato nel termine previsto anche laddove la questura competente non abbia nelle more risposto alla richiesta d’informazioni (comma 5.0.1 aggiunto all’articolo 22 del testo unico); che la verifica, sempre ai fini del rilascio del nulla-osta, dell’osservanza del contratto collettivo e della congruità del numero di richieste presentate da uno stesso datore di lavoro rispetto alla sua capacità economica e alle sue esigenze, affidata dal regolamento d’attuazione del testo unico alle Direzioni provinciali del lavoro, compete, invece, ai consulenti del lavoro che producono la relativa asseverazione (nuovo art. 24-bis del testo unico); e che a seguito del nulla-osta lo svolgimento dell’attività lavorativa è consentito anche prima della sottoscrizione del contratto di soggiorno (comma 6-bis aggiunto all’articolo 22 del testo unico).

Siffatte innovazioni vanno senza dubbio, come enunciato nella rubrica dell’articolo 2, a semplificare-accelerare. Tuttavia, riprendendo l’osservazione già proposta con riguardo all’articolo 1, si deve notare che non viene toccato in alcun modo il nodo costituito dalla non corrispondenza dei meccanismi legali alle dinamiche reali dell’immigrazione per lavoro. Perché si conferma lo schema di un ingresso su chiamata di un datore di lavoro quando invece di fatto da sempre in Italia l’incontro tra domanda e offerta avviene nel territorio.

Perciò, come già osservato parlando delle quote, questa semplificazione-accelerazione potrebbe essere destinata a “funzionare”, contro l’intenzione dichiarata del legislatore, essenzialmente in termini di sanatoria secondo la modalità di cui si è detto a proposito dell’articolo 1.

Art. 3. Ingresso e soggiorno al di fuori delle quote

Oltre alle quote previste all’articolo 1, il decreto prevede ulteriori possibilità d’ingresso per determinate categorie di lavoratori. L’articolo 3 dà di fatto seguito al D.Lgs. 253/2016, che aveva introdotto nell’articolo 23 del testo unico gli allora denominati “titoli di prelazione”. Al riferimento allora previsto alle attività di istruzione e di formazione professionale si aggiunge quello a corsi di formazione “civico-linguistica” da attivare, sempre, nei Paesi di origine. Tali percorsi andranno programmati e valutati secondo linee guida predisposte dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS). Viene quindi ribadita l’importanza della conoscenza della lingua e dei principi del diritto per una più efficace integrazione. L’intervento più decisivo riguarda, tuttavia, l’inserimento nell’articolo 23 del comma 2-bis che specifica che il MLPS è tenuto a comunicare, entro sette giorni, al Ministero dell’Interno e al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale le generalità dei partecipanti ai corsi per la verifica di eventuali elementi ostativi che porterebbero alla revoca del nulla osta e del visto e alla risoluzione di diritto del contratto di soggiorno e del permesso di soggiorno. Lo stesso comma 2-bis prevede poi che la domanda di visto d’ingresso, presentata necessariamente entro sei mesi dalla conclusione del percorso di formazione, sia correlata dalla conferma dell’assunzione da parte del datore di lavoro. Un’ulteriore modifica apportata dal decreto riguarda la possibilità di stipulare accordi con soggetti, pubblici o privati, che operano nel campo della formazione e dei servizi per il lavoro nel Paesi terzi. Tale specifica, prevista dal comma 4-bis, insieme alla predisposizione delle sopracitate linee guida, fornisce strumenti atti a supportare la concreta realizzazione dei corsi garantendo una maggiore uniformità delle proposte.

Se risulta chiaro lo sforzo fatto per l’implementazione del sistema, restano però al momento interrogativi sulla sua reale efficacia. Al di là dell’importanza della formazione, anche pre-partenza, resta di fatto aperta la questione connessa al reale utilizzo fatto fino ad ora delle regole sull’ingresso dei lavoratori. Come evidenziato nell’analisi degli articoli 1 e 2, infatti, la preferenza ricade sui lavoratori comunque già presenti sul territorio e spesso già impiegati. Questo fatto, seppur contra legem, ha una sua comprensibile spiegazione se si pensa all’importanza della fiducia data alla conoscenza, soprattutto in settori particolari quali quelli di cura della persona. Accogliere un lavoratore che non si conosce è più problematico anche in presenza di una già avvenuta formazione. Ma è chiaro che tale dato reale costituisce un’ipoteca sull’efficacia del meccanismo di cui all’articolo 3.

Va poi aggiunto che l’operatività di siffatti meccanismi è collegata inevitabilmente anche alle risorse finanziarie messe in campo e che, a questo proposito, l’articolo 11 del decreto propone la consueta clausola di invarianza finanziaria.

Art. 4. Disposizioni in materia di durata del permesso di soggiorno per lavoro a tempo indeterminato, per lavoro autonomo e per ricongiungimento familiare

Con questo articolo si modifica la norma del testo unico riguardante il rinnovo dei permessi di soggiorno per lavoro a tempo indeterminato, lavoro autonomo e per ricongiungimento familiare (art. 5, “permesso di soggiorno”, commi 3-bis, 3-quater, 3-sexies). Tali permessi hanno una prima durata massima biennale, che è rimasta invariata. Quello che il decreto modifica è la durata del rinnovo, che sarà di massimo di tre anni. In questo modo, con un solo rinnovo, il titolare di questi tipi di permesso di soggiorno avrà raggiunto i cinque anni di residenza regolare sul territorio presupposto per accedere al permesso di lungo soggiorno.

Probabilmente tale innovazione, oltre a mirare a una stabilizzazione maggiore sul territorio di lavoratori stranieri e loro familiari, mira a semplificare le procedure di rinnovo e diminuire l’onere che grava sulle Questure, deputate a gestire rilasci e rinnovi dei permessi di soggiorno e notoriamente oberate dalla gestione del gran numero di pratiche. Per dare un’idea delle quantità, solo nel 2021 i permessi per motivi di famiglia rilasciati dalle autorità sono stati più di 122mila e quelli per motivi di lavoro più di 51mila (dati ISMU), determinando un futuro molto probabile impegno per rinnovi altrettanto numerosi. Da notare che il decreto non modifica la durata dei permessi per lavoro a tempo determinato (massimo un anno), emergendo una tendenza a preferire il soggiorno stabile sul territorio piuttosto che quello temporaneo di breve durata per motivi di lavoro.

Art. 5. Ingresso dei lavoratori del settore agricolo e contrasto alle agromafie

L’articolo 5 del decreto mira ad agevolare l’ingresso dei lavoratori destinati ad operare almeno inizialmente nel settore agricolo.

Quello del particolare fabbisogno di manodopera straniera in tale settore è tema discusso, invero, da anni. L’articolo 5, a questo proposito, prevede che i datori di lavoro operanti nel settore che non sono riusciti ad ottenere tramite l’ultimo decreto flussi del 29 dicembre 2022 tutta la manodopera richiesta godranno di una “priorità” con riguardo ai prossimi decreti riguardanti il triennio. Vale, è chiaro, anche in questo caso l’interrogativo se si tratti – fatto salvo il lavoro stagionale – di nuovi ingressi o di sanatoria relativamente a rapporti di fatto già in essere.

L’articolo 5 prevede, inoltre, l’accrescimento dell’operatività dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF) attraverso il conferimento a una parte del suo personale della qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. Va peraltro osservato che l’azione dell’ispettorato tocca solo indirettamente il tema dell’immigrazione irregolare e dello sfruttamento dei lavoratori immigrati.

Art. 6. Misure straordinarie in materia di gestione dei centri per migranti

L’articolo 6 del decreto detta regole sulla gestione dei centri per migranti qualora si siano manifestate situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali attribuibili ad un’impresa aggiudicataria di un appalto per la realizzazione di opere pubbliche, servizi o forniture (art.32 del DL 90/2014 convertito con modificazioni dalla Legge 114/2014). Si tratta di misure a garanzia della continuità d’erogazione dei servizi offerti dai centri a salvaguardia dei livelli occupazionali e a tutela dei diritti fondamentali delle persone ospitate. In presenza delle situazioni di cui sopra, infatti, viene previsto l’intervento del prefetto che con proprio decreto nomina commissari chiamati a gestire temporaneamente l’impresa. La selezione viene effettuata tra i funzionari della prefettura, ma non solo, in virtù di specifiche qualifiche e comprovate professionalità. Come previsto dai commi 3 e 4 dell’articolo 32 del decreto-legge 90/2014 come convertito dalla legge 114/2014, durante l’incarico i nuovi amministratori godono di tutti i poteri e ricoprono tutte le funzioni degli organi di amministrazione. Allo stesso modo, essi sono considerati responsabili di eventuali diseconomie dei risultati in caso di dolo o di colpa grave. Durante il periodo di temporanea e straordinaria gestione, i contributi economici destinati al centro sono versati al netto del compenso previsto per i commissari tenendo conto, tuttavia, della capienza del centro stesso e della durata prevista per la nuova amministrazione. Enti responsabili della relativa determinazione sono il Ministero dell’Interno di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Proprio perché si tratta di una misura straordinaria e temporanea, va da subito avviata, da parte del prefetto, la procedura per l’affidamento diretto di un nuovo appalto. Individuati i nuovi gestori del servizio, i commissari precedentemente nominati cessano le loro funzioni.

Art. 7. Protezione speciale

È probabilmente la modifica più importante e di cui più si discuterà in sede di conversione del decreto. Presente nell’ordinamento fin dal 1998, l’istituto della protezione speciale è stato modificato e messo in primo piano nel 2020, dopo che il Decreto sicurezza Salvini nel 2018 aveva sancito l’abolizione della protezione umanitaria. Col decreto 130/2020 si erano ampliati i presupposti della protezione speciale, complementare rispetto a quella internazionale: da allora in Italia sono stati rilasciati un numero crescente di permessi di protezione speciale, dal 2019 al 2021 sono stati rilasciati in totale 8.465 permessi, di cui circa 7mila nel 2021 (secondo i dati del Ministero dell’Interno). Di fatto, con il nuovo decreto si dispone una riduzione dei casi dell’articolo 19 del TU nei quali è possibile il rilascio di tali permessi prevedendosi l’abrogazione della seconda parte del comma 1.1, terzo e quarto periodo, riferita alla tutela della vita privata e familiare e al percorso d’integrazione sul territorio dei richiedenti protezione. Dato il grande rilievo dei diritti coinvolti e la risonanza mediatica e giuridica della modifica è opportuno soffermarsi sul punto.

Innanzitutto bisogna sottolineare che rimane assolutamente fermo il principio di non respingimento di cui al primo comma dell’articolo 19 derivante dalla Convenzione di Ginevra: in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di orientamento sessuale, di identità di genere, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione. Ciò premesso, rimanendo solo la prima parte dell’art. 19 comma 1.1, il permesso di soggiorno potrà inoltre essere rilasciato a chi rischierebbe in caso di rimpatrio di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti nel Paese di origine o a violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani. Il permesso di protezione speciale può essere rilasciato altresì anche qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6, del testo unico, cioè sulla base di convenzioni o accordi internazionali.

Proprio in relazione a tali obblighi internazionali, si noti, era stato inserito il riferimento all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare e impedisce quindi il rimpatrio in presenza di forti legami familiari e sociali sul territorio italiano. Col nuovo decreto si sopprime tale richiamo testuale, e si abroga il riferimento alla natura e effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali col Paese d’origine (facendo salve le istanze presentate prima del decreto, che restano soggette alla disciplina previgente). Per i richiedenti asilo, di conseguenza, in assenza di persecuzioni o violazioni gravi di diritti umani nel Paese di origine, sarà molto più difficoltoso ottenere un permesso di soggiorno per protezione speciale, anche se dimostrassero di avere costruito in Italia legami sociali e familiari, integrazione lavorativa e stabilità sul territorio.

Peraltro, il rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali per lo Stato italiano rimarrà doveroso. Sarà allora la giurisprudenza nazionale e sovranazionale a dover operare un delicato bilanciamento tra la volontà del legislatore e il rispetto della vita privata e familiare dei richiedenti asilo protetta dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Fermo restando l’auspicio che in sede di conversione la restrizione di cui sopra venga cancellata o comunque riconsiderata.

Art. 8. Disposizioni penali

L’articolo 8 del decreto, secondo una linea da tempo emersa nella legislazione, mira a contrastare l’illegalità anzitutto attraverso la previsione di pene maggiori in relazione agli illeciti penali. È così accresciuta la durata delle pene detentive relative alla gestione dei flussi irregolari previste dall’articolo 12 del testo unico e poi a quest’ultimo si affianca un articolo 12-bis ai sensi del quale quando il trasporto o l’ingresso sono attuati con modalità tali da esporre le persone a pericolo per la loro vita o per la loro incolumità o sottoponendole a trattamento inumano o degradante se dal fatto deriva, quale conseguenza non voluta, la morte di più persone la pena prevista è la reclusione da venti a trenta anni.

Di tutto il decreto, quest’ultima disposizione è probabilmente quella più specificamente legata alla tragedia di Cutro. Con riguardo ad essa si è indotti immediatamente ad apprezzarne la possibile valenza preventiva nel senso che essa dovrebbe indurre chi gestisce i flussi irregolari ad adottare tutte le necessarie cautele per evitare la morte dei migranti. Però, specie pensando ai flussi verso Lampedusa, si può anche, al contrario, pensare che una siffatta disposizione, e in generale le nuove e più severe sanzioni penali, potrebbero invece addirittura accrescere i rischi inducendo chi gestisce il traffico ad abbandonare le imbarcazioni nelle mani dei migranti così da evitare ogni rischio di “contatto” con le autorità italiane. Come del resto già fanno gli organizzatori dei viaggi che vivono in Libia, protetti anzitutto dallo stato di fatto.

Più in generale va poi osservato che, per essere davvero efficaci, le sanzioni penali, al di là della maggiore o minore severità, dovrebbero essere applicate in modo tale da colpire sistematicamente se non tutti i segmenti delle organizzazioni che gestiscono l’immigrazione irregolare per lo meno quelli che sulle rive del Mediterraneo organizzano le partenze; ed è chiaro che non vi sono le condizioni perché ciò si realizzi. Inoltre, se anche si ottenesse un sistema repressivo efficace, resterebbe comunque l’esigenza di avere canali legali d’arrivo per i richiedenti asilo. E d’altra parte, se tali canali vi fossero, l’attività dei cosiddetti trafficanti verrebbe automaticamente per lo meno ridimensionata. La mancanza di siffatti canali legali è, in effetti, una questione che andrebbe assolutamente affrontata. Nei giorni precedenti l’emanazione del decreto era parso che ciò potesse avvenire con tale provvedimento, in particolare con riguardo ai cosiddetti corridoi umanitari. Così non è stato. Ma non sarebbe certo inopportuno l’inserimento con la legge di conversione di qualche previsione in proposito.

Art. 9. Disposizioni in materia di espulsione e ricorsi sul riconoscimento della protezione internazionale

Nell’articolo 9 del decreto vi sono tre modifiche procedurali, apparentemente piccole ma di grande significato sostanziale, a una prima lettura oscure perché costruite tramite rimandi legislativi.

In primo luogo, è stato modificato un aspetto del termine di presentazione del ricorso avverso l’espulsione: sono trenta giorni dalla notifica dell’atto, sessanta solo se il ricorrente si trovi in un paese terzo al momento della proposizione del ricorso, con la possibilità di depositare il ricorso anche a mezzo del servizio postale oppure per il tramite di una rappresentanza diplomatica o consolare italiana. Ciò significa che se il ricorrente risiede o si trova in uno Stato membro dell’Unione Europea, il termine è di trenta giorni. Prima era invece di sessanta per tutti i residenti “all’estero”. Peculiare poi il riferimento fattuale alla presenza fisica (“si trovi in un paese terzo”) invece che il requisito formale della residenza, di solito preferito in sede giurisdizionale per motivi formali di certezza del diritto.

Sembra un tentativo di ridurre il contenzioso. Riducendo i termini di presentazione del ricorso diminuiscono infatti le chance per l’interessato di far ricorso in Italia, se ha già lasciato il nostro territorio per raggiungere un altro Stato dell’Unione. Si contrasterebbe così un possibile abuso della tutela giurisdizionale legato al cosiddetto asylum shopping ossia al chiedere asilo in più Paesi dell’Unione più o meno contemporaneamente sfruttando le lacune del sistema Dublino (in virtù del quale, in teoria, lo Stato membro preposto all’esame della domanda sarebbe solo quello di primo approdo – nella realtà non molto applicato a causa del mancato coordinamento tra le autorità degli Stati membri).

La seconda e la terza modifica riguardano invece la disciplina della espulsione amministrativa.

È soppressa la convalida da parte del Giudice di Pace del provvedimento del Questore nelle ipotesi di espulsione a titolo di misura di sicurezza a seguito della commissione di taluni gravi delitti (per cui è previsto l’arresto in flagranza) e in caso di espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione. Eliminata la convalida del giudice anche nelle ipotesi di espulsione dello straniero come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale. La ratio, in questo caso, potrebbe essere che la tutela giurisdizionale si è già avuta nel procedimento penale e non è necessario si rinnovi. Così però viene meno una garanzia, prima prevista, di controllo e verifica del rispetto del principio di non respingimento e dei diritti umani.

È abrogata la norma che prevedeva, a seguito del rifiuto del rilascio di permesso di soggiorno da parte della Questura, la concessione allo straniero di un termine, non superiore a quindici giorni lavorativi, per presentarsi al posto di polizia di frontiera indicato e lasciare volontariamente il territorio. Soppresso tale termine, lo straniero che riceva un rifiuto di concessione di permesso di soggiorno è potenzialmente da subito destinatario di un provvedimento di espulsione.

Tali modifiche mirano al rafforzamento dei meccanismi d’espulsione degli irregolari. Non interessano solo gli operatori del diritto, perché incidono sostanzialmente sulle garanzie di procedura. L’esperienza italiana invero finora ha proposto una scarsa efficacia e efficienza dei meccanismi d’espulsione: nel 2022, ad esempio, si sono avuti solo 14mila ordini di espulsione (dati Eurostat) quando le stime ISMU hanno segnalato una presenza di circa 500mila “irregolari”; e nel 2021, secondo i dati del Ministero dell’Interno, sono stati effettivamente eseguiti solo 3.420 rimpatri! Ma che la strada per ridurre significativamente la presenza di irregolari sul territorio sia quella di un restringimento delle garanzie, appare non solo discutibile sul piano dei principi ma dubbio in fatto. Non si può tra l’altro dimenticare che già in passato più volte il legislatore ha operato in vario modo riducendo le tutela dei migranti in nome dell’esigenza di dare più efficacia alle politiche di rimpatrio, senza conseguire i vantaggi sperati.

Art. 10. Disposizioni per il potenziamento dei centri di permanenza per i rimpatri

Il decreto-legge 13/2017 convertito con modificazioni dalla legge 46/2017 e recante “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale” all’articolo 19, per l’effettiva messa in atto delle espulsioni, aveva previsto un ampliamento della rete dei centri di permanenza per i rimpatri.

L’articolo 10 del decreto qui in esame, aggiungendo ad esso un comma 3-bis, specifica i limiti temporali per la realizzazione di ulteriori centri, prevedendo come termine il 31 dicembre 2025, anche in deroga ad ogni disposizione di legge, fatte salve quelle penali e antimafia. Viene inoltre disciplinato, nell’ambito delle procedure di ampliamento, il ruolo dell’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC).

Resta da capire come verrà realizzato il potenziamento della rete a fronte dell’articolo 11 del decreto che esclude nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Al di là delle diverse questioni particolari, il quadro che emerge è quello di un provvedimento che – come è tipico dei decreti-legge – interviene con misure frammentarie e nemmeno sempre ben ponderate per affrontare questioni che invece, come più volte sottolineato da questa Fondazione (si vedano, da ultimo il Ventottesimo Rapporto sulle migrazioni 2022 e il Libro Bianco sul governo delle migrazioni economiche), richiederebbero un approccio organico e di ampio respiro.

Ennio Codini, Marina D’odorico e Sara Morlotti, Settore Legislazione

Marzo 2023