Si intensifica, di giorno in giorno, l’attenzione mediatica e del sistema giudiziario sul mondo delle residenze per anziani dentro le quali, in queste settimane, si è registrato un impressionante numero di morti. Al di là del versante giudiziario della questione, la cronaca ha posto sotto i riflettori il tema dell’assistenza agli anziani non auto-sufficienti; verrebbe da dire “finalmente”, se non fosse per la tragicità degli eventi e del contesto. Quello che si auspica, da più parti, è il profondo ripensamento di tutto il sistema della cura, reso ancor più urgente dallo scenario demografico del paese, che impone un grande sforzo di innovazione sociale per la messa a punto di soluzioni dignitose e sostenibili. Che sia almeno questo il lascito di una emergenza che ha falcidiato, in molte province del Nord Italia, le classi d’età più anziane, custodi della memoria di un Paese oggi alle prese con forti tensioni identitarie.
Non va allora dimenticato come l’emergenza Covid-19, nel sollecitare una riflessione sul modello dell’istituzionalizzazione per come esso è stato prevalentemente interpretato, ha al tempo stesso reso ancor più evidente il precario equilibrio sul quale si regge il sistema di “welfare parallelo” alimentato sostanzialmente dal lavoro degli immigrati, o più precisamente delle immigrate, impiegati/e presso le famiglie italiane per funzioni domestiche e di cura. Molti studi, in questi anni – a partire da quelli pionieristici promossi proprio dalla nostra Fondazione – hanno denunciato le molteplici implicazioni problematiche del lavoro immigrato in questo ambito, che “stridono” col suo essere una componente indispensabile del nostro regime di riproduzione sociale. La fortissima etnicizzazione del profilo della colf e dell’assistente domiciliare – sono stranieri oltre il 70% degli addetti – è l’altra faccia della medaglia della condizione di segregazione occupazionale delle donne immigrate (il settore assorbe il 42% di tutte le lavoratrici straniere, e una percentuale significativamente più alta tra le donne di alcune nazionalità, per le quali costituisce quasi l’unico sbocco possibile, in base a un destino che si è perfino cristallizzato nel linguaggio, attraverso l’invenzione di un termine infelice come quello di badante). E che, a sua volta, riproduce ed esaspera le classiche forme della discriminazione femminile, prima fra tutte la difficoltà a conciliare il ruolo lavorativo con quello familiare, che impone a molte lavoratrici straniere la rinuncia a una vita familiare normale. I notevoli sacrifici esistenziali che questo lavoro comporta, specie nella formula in coabitazione, generano poi pesanti costi sul benessere psico-fisico delle lavoratrici (e non di rado lo sviluppo di disturbi psicologici, la c.d. “sindrome della badante”) ed anche il progressivo logoramento delle capacità lavorative. Così come, per molte collaboratrici domestiche, i bassi redditi percepiti e le diffuse situazioni di lavoro nero/grigio potrebbero costituire il preludio di una vecchiaia in povertà, anche per chi ha faticosamente risparmiato per offrire migliori prospettive a figli e nipoti (già oggi non mancano testimonianze al riguardo, ma è un problema destinato sicuramente ad accentuarsi nei prossimi anni).
Ma questo è solo uno dei versanti del problema. Occorrerebbe poi considerare il tema della qualità dell’assistenza erogata, e dei rischi cui sono esposti gli stessi anziani, affidati alle mani di lavoratrici non sempre esperte e non sempre “oneste”; e ciò non dimeno insostituibili, difficili da rimpiazzare nel caso in cui – come appunto può avvenire nel corso di una fase emergenziale – esse stesse si ammalino o decidano di troncare improvvisamente il rapporto di impiego.
L’emergenza Covid ha resto innanzitutto evidente la persistente diffusione di rapporti di impiego non contrattualizzati. A fronte dei circa 800mila lavoratori ufficialmente assunti, si stimano[1] (ovvero si stimavano prima dell’inizio dell’emergenza) in oltre due milioni quelli realmente impiegati dalle famiglie, di cui circa un milione gli extracomunitari. Tra questi ultimi, “solo” 150-200mila sono privi anche di un permesso di soggiorno: dato che ci dice di una diffusa propensione all’irregolarità anche quando ci sarebbero le condizioni per procedere a una regolare assunzione. Forse più ancora dei costi (che costituiscono un ostacolo insormontabile solo per una parte dei datori di lavoro), è la falsa percezione di una reciproca convenienza a spiegare questo fenomeno, complice una diffusa sottovalutazione delle sue conseguenze nel medio-lungo periodo, per il personale impiegato e per il sistema nel suo complesso.
L’avvio della c.d. “fase uno” ha favorito la contrattualizzazione di diverse centinaia di migliaia di rapporti di impiego, ma ha anche reso ancor più evidente il precario equilibrio economico su cui si regge tutto il sistema, che si è tradotto nella (temporanea?) perdita del lavoro per molti lavoratori/trici del settore. Per di più, sono emersi con evidenza tutti i rischi di un lavoro che continua a non essere considerato esattamente come tale, in virtù della sua natura domestica e familiare: la mancanza di reali misure di sostegno per chi si ritrova disoccupato e privo di reddito, ma anche di “protezione” tout court rispetto ai rischi fisici ed emotivi di un lavoro – nel caso in particolare delle assistenti familiari – svolto all’interno delle mura domestiche, a strettissimo contatto con gli assistiti e fortemente limitativo della libertà e dell’autonomia individuale.
Risulta dunque assolutamente urgente immaginare una vera politica che ridisegni e regoli questo tassello insostituibile del nostro regime di welfare – destinato peraltro a crescere in relazione alla situazione demografica del Paese – secondo un disegno capace di contemperare diversi obiettivi:
- l’affrancamento dei lavoratori/trici dalla loro condizione di segregazione lavorativa e sociale mediante un radicale ripensamento di questo tipo di impiego, segnatamente dell’assistenza h24, attraverso l’avvicendamento di più operatori/trici nello stesso posto di lavoro, con un sistema di turnazione sostenibile
- l’integrazione di questi operatori nella rete territoriale dei servizi assistenziali e sanitari (di cui, peraltro, l’emergenza in corso ha evidenziato la necessità di un deciso rafforzamento);
- la redistribuzione di un onere che attualmente grava in buona misura sulle famiglie attraverso l’integrale deducibilità fiscale degli stipendi e interventi di sussidiarizzazione finanziati attraverso la fiscalità generale (che potrebbero avere una valenza sperimentale ed eventualmente estendibile ad altri settori occupazionali per contrastare la crescita del “lavoro povero”);
- lo studio e la sperimentazione di nuovi canali di ingresso adeguati a rispondere a questo peculiare segmento della domanda di lavoro immigrato.
Questo tipo di interventi deve però trovare sponda, sul piano politico e culturale, nella crescita di consapevolezza riguardo a due aspetti fondamentali, da tempo sottolineati dalla comunità scientifica, ma ancora marginali nel dibattito pubblico (anche in quello che oggi si interroga sulle condizioni per una “ripresa”): il primo riguarda lo stretto intreccio tra funzioni produttive e funzioni “riproduttive” e la necessità di trovare un loro equilibrio sostenibile, senza il quale è impossibile garantire la sostenibilità dei regimi di accumulazione, tanto più nello scenario demografico contemporaneo; il secondo riguarda la necessità di equiparare il lavoro domestico e di cura domiciliare al lavoro tout court, risolvendo l’ambiguità che ancora lo caratterizza nelle stesse aspettative dei datori di lavoro, anche attraverso sanzioni più concrete e incisive per chi ricorre a prestazioni non regolarmente contrattualizzate. Tutto ciò implica anche un salto di qualità sul piano degli atteggiamenti e delle narrazioni, che renda possibile il superamento di quel diffuso pregiudizio che rappresenta le donne migranti come le candidate naturali a ricoprire il ruolo di “badante”. Cominciando proprio col debellare dal nostro vocabolario questa infelice espressione.
di Laura Zanfrini, Responsabile Settore Economia e lavoro Fondazione ISMU
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[1] Assidancolf, Comunicato stampa 9 dicembre 2019.