La crisi sanitaria globale legata al covid-19 ha avuto dei riflessi sull’attuazione del diritto di asilo, mettendo nuovamente in luce le contraddizioni e le fragilità del sistema europeo e dei sistemi di asilo nazionali e la difficoltà di pervenire a soluzioni coordinate. Di seguito, delle considerazioni relative ad alcuni ambiti (controlli alle frontiere interne e ingresso nell’Unione europea, accesso e svolgimento delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, condizioni di accoglienza), in cui sono state adottate misure a livello nazionale e UE, suscettibili di ripercuotersi sulla posizione dei richiedenti protezione internazionale e sul corretto funzionamento del sistema comune europeo di asilo, ovvero sono apparse acutizzate le debolezze preesistenti. A fronte di tali misure e alle problematiche afferenti alla gestione dell’emergenza, sulle quali sono state espresse forti preoccupazioni dalle organizzazioni della società civile che operano nel campo della tutela dei diritti dei migranti, la Commissione europea e l’UNHCR hanno fornito delle indicazioni finalizzate ad assicurare l’effettività del diritto di asilo nel contesto dell’emergenza sanitaria, con un riferimento ai principi di proporzionalità e non discriminazione. Un richiamo al rispetto dei diritti fondamentali, compreso il diritto alla salute, di migranti, rifugiati ed apolidi, e degli obblighi di protezione, incluso il principio di non respingimento, è stato espresso anche in una dichiarazione congiunta di OHCHR, OIM, UNHCR, OMS il 31 marzo 2020.
Ripristino dei controlli alle frontiere interne e restrizioni ai viaggi non essenziali nell’Unione europea
Non appena è emersa la consapevolezza della gravità della situazione legata all’emergenza pandemica, diversi Stati membri hanno adottato misure, motivate da esigenze di tutela della salute pubblica, volte a limitare l’attraversamento delle proprie frontiere e a identificare e isolare i soggetti potenzialmente contagiati. Tra marzo e aprile, in particolare, tredici Stati membri, oltre alla Svizzera, l’Islanda e la Norvegia, che aderiscono allo spazio Schengen, hanno comunicato alla Commissione europea il ripristino dei controlli alle frontiere interne, utilizzando le possibilità legate a situazioni eccezionali e di minaccia grave, previste dal Codice frontiere Schengen.
Tali misure, attuate in maniera non coordinata dagli Stati, sono evidentemente suscettibili di ripercuotersi sul diritto di asilo, impedendo l’accesso dei richiedenti protezione internazionale sul proprio territorio. Ad esempio, in Ungheria, a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza adottata dal Governo l’11 marzo 2020, nessun cittadino straniero può entrare nel paese, ad eccezione dei beneficiari del diritto alla libera circolazione in possesso di una carta di soggiorno permanente. In circostanze eccezionali, debitamente giustificate, il vicecapo della polizia può autorizzare l’ingresso di altri stranieri, se sono stati sottoposti al test COVID-19 e i risultati sono stati negativi, e sono stati registrati dall’autorità ungherese di controllo delle epidemie. In Austria, facendo seguito a un decreto che ha imposto la presentazione di un certificato medico attestante l’esito negativo del test per la ricerca biologica del COVID-19 per l’ingresso nel Paese, a fine marzo, il Ministero dell’Interno ha rivolto delle indicazioni alle guardie di frontiera, specificandone l’applicazione anche nei confronti dei richiedenti protezione internazionale.
Con un provvedimento senza precedenti, la Commissione europea ha raccomandato l’adozione, da parte di tutti i Paesi Schengen e associati, di una decisione coordinata ai fini dell’applicazione di restrizioni temporanee ai viaggi non essenziali verso la c.d. “zona UE+”[1], per un periodo iniziale di 30 giorni. La raccomandazione è stata condivisa dal Consiglio europeo nel corso di una riunione il 17 marzo, ed ha comportato l’adozione, da parte di tutti gli Stati membri dell’UE (ad eccezione dell’Irlanda) e gli Stati associati Schengen, di decisioni nazionali per attuare la restrizione dei viaggi. Essa è stata seguita da successive iniziative della Commissione, la quale nel valutare l’applicazione della misura, ne ha suggerito la proroga fino al 15 giugno 2020. Si tratta di un provvedimento che solleva numerose problematiche giuridiche, quanto all’oggetto (le restrizioni ai viaggi), i presupposti e le modalità attuative. Specifiche cautele sono state rivolte agli obblighi di protezione ed essa ha ritenuto che la restrizione “non dovrebbe” applicarsi alle persone che necessitano di protezione internazionale o in viaggio per altri motivi umanitari, al fine di assicurare il rispetto del principio di non respingimento. L’osservanza da parte degli Stati membri del mero invito a non applicare la restrizione, a differenza dell’obbligo affermato nei confronti di altre categorie di persone (cittadini UE e di Stati associati Schengen, e loro familiari, nonché cittadini di paesi terzi che soggiornano legalmente nell’UE, che fanno ritorno a casa, sono esclusi dalle restrizioni), dovrà essere vagliata con estrema attenzione.
Come evidenziato dall’UNHCR, misure quali screening sanitari all’ingresso e l’applicazione della quarantena per i nuovi arrivati possono essere giustificate da esigenze di tutela della salute pubblica, ma impedire l’ammissione generale dei rifugiati o dei richiedenti asilo, senza prove di un rischio per la salute e senza misure di protezione contro il respingimento, sarebbe discriminatorio ed incompatibile con gli standard internazionali, in quanto il rifiuto di accesso al territorio senza garanzie di protezione contro il respingimento non può essere giustificato da alcun rischio per la salute. Si tratta, infatti, di un valore assoluto che non tollera restrizioni o bilanciamenti. Opportunamente diversi Stati membri (tra questi Germania e Svezia) hanno espressamente esentato i richiedenti asilo dal divieto d’ingresso alle rispettive frontiere.
Sospensione della presentazione delle domande e dello svolgimento delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale
La necessità di adottare misure volte a scongiurare e contenere il rischio di contagio ha indotto gli Stati membri ad intervenire anche sulle concrete modalità di registrazione ed esame delle domande di protezione internazionale. Se alcuni Stati hanno sospeso le registrazioni o optato per modalità di trasmissione in via telematica, altri hanno interrotto le audizioni dei richiedenti, addirittura in alcuni casi sospendendo del tutto la procedura. In Italia, è stata disposta la sospensione delle audizioni dei richiedenti. Inizialmente limitata alle sole commissioni e sezioni territoriali delle c.d. zone rosse (provvedimento della Commissione nazionale n. 1788 del 24 febbraio 2020/2/2020), essa è stata poi estesa ai collegi di tutto il territorio nazionale (provvedimento della Commissione nazionale n. 2327 del 10 marzo 2020) e prorogata fino al 13 aprile. Le misure non hanno comportato la chiusura dei Collegi, nel rispetto, tuttavia, dell’esigenza di garantire la massima riduzione del personale negli Uffici. Sono, inoltre, stati sospesi i termini di impugnazione avverso il diniego del riconoscimento della protezione.
Particolarmente critica la situazione in Grecia, ove di fronte alla pressione migratoria alla frontiera greco-turca, già a inizio marzo era stata disposta la completa sospensione delle attività dell’Ufficio d’asilo greco. Nonostante le proteste, la misura è stata confermata il 26 marzo dal Parlamento greco e successivamente estesa fino al 15 maggio, richiamando esigenze di tutela della salute e prevenzione del contagio.
Una sospensione temporanea, sebbene comporti ritardi e l’accumulo di arretrati nell’emanazione delle decisioni, può essere opportuna, al fine di approntare le misure di contenimento necessarie a tutelare la salute di funzionari e richiedenti (per evitare assembramenti e spostamenti di persone, per la sanificazione e l’adeguamento dei locali dove si effettuano i colloqui, ove questi non si possano svolgere con modalità telematica ecc.), a condizione che non comporti la violazione delle garanzie previste nell’ambito della procedura per il riconoscimento della protezione internazionale. Al contrario un provvedimento con il quale si disponga la generale sospensione delle procedure di asilo, a tempo indeterminato e in maniera incondizionata, risulta in contrasto con gli obblighi internazionali e UE in materia di protezione internazionale.
Le suddette misure nazionali sono state autonomamente assunte, in maniera diversificata, in assenza di previsioni nelle diverse direttive che compongono il sistema comune europeo di asilo, riferibili a situazioni come quella risultante dalla pandemia di Covid-19. La Commissione europea è, pertanto, intervenuta fornendo delle linee guida (orientamenti non vincolanti, elaborati con il supporto dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo – EASO – e dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera – Frontex), volte a contemperare le esigenze di continuità delle procedure con le garanzie di protezione della salute delle persone e dei loro diritti fondamentali, conformemente alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e nel rispetto del principio di proporzionalità.
Considerata l’assenza di apposite previsioni nella direttiva 2013/32/UE (“direttiva procedure”), la Commissione ha suggerito di prendere in considerazione l’applicazione, per un periodo limitato, di norme derogatorie come quelle stabilite nel caso di un numero elevato di domande simultanee, per quanto attiene alla proroga di dieci giorni dei termini per la registrazione delle domande (art. 6, par. 5) e di sei mesi per l’espletamento delle procedure (art. 31, par. 3, lett. b), suggerendo la presentazione delle stesse per posta o preferibilmente con modalità telematiche, nonché lo svolgimento del colloquio personale a distanza, ovvero la sua omissione, in specifiche situazioni (art. 14, par. 2, lett. b), avendo cura, in tali casi, di “fare quanto ragionevolmente possibile” per consentire al richiedente di fornire ulteriori informazioni, e fermo restando che detta omissione non può pregiudicare la decisione dell’autorità accertante (art. 14, par. 4). Tali temporanee modifiche procedurali devono essere adeguatamente comunicate al pubblico.
Nonostante il richiamo ai limiti volti a tutelare il diritto alla salute, con cui attuare le procedure di riconoscimento, si possono evidenziare alcuni profili critici, su cui occorre prestare attenzione. Il ritardo delle amministrazioni nel registrare la domanda di asilo non può, in particolare, ripercuotersi negativamente sulla possibilità per i richiedenti asilo di accedere al sistema di accoglienza, che è garantita sin dalla presentazione della domanda (art, 17, par. 1, dir. 2013/33/UE). Ciò è avvenuto ad esempio in Belgio ove, a seguito delle misure adottate dal Consiglio di sicurezza nazionale contro la diffusione del coronavirus, il 17 marzo l’Ufficio Stranieri ha temporaneamente deciso di non registrare più nuove domande presso il centro arrivi di Bruxelles, di fatto rendendo impossibile l’accoglienza dei nuovi richiedenti nel Paese. Motivata dall’esigenza di evitare assembramenti e file all’esterno, la misura è stata sospesa a inizio aprile, allorché sono state disposte nuove procedure di registrazione in via telematica e su appuntamento.
Accesso all’accoglienza, distanziamento personale e tutela della salute nei centri per i richiedenti protezione internazionale
In considerazione della necessità di assicurare il riparo, prevenendo altresì la diffusione del COVID-19, è evidente che uno dei profili di maggiore criticità attiene all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale. Si tratta, infatti, di un ambito del sistema comune europeo di asilo ove già sono note le differenze ed inadeguatezze dei sistemi nazionali, sia in termini di organizzazione che di standard offerti ai richiedenti.
Alcuni Stati hanno istituito o accelerato la costruzione di centri di emergenza o nuovi centri per accogliere le persone in quarantena (la quarantena obbligatoria alla frontiera è in vigore per i nuovi arrivati in molti Stati europei, tra cui Croazia, Repubblica Ceca, Grecia, Irlanda, Italia, Malta, Moldavia, Polonia, Serbia e Slovenia. In Italia, se da un lato, sono state adottate diverse misure intese a tutelare la salute e la diffusione del contagio, quali la proroga dei progetti di accoglienza dei comuni e della validità dei permessi di soggiorno, l’estensione dell’’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale e dei titolari di protezione umanitaria (sottoposti al periodo di quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva) nel SIPROIMI, in deroga alle disposizioni vigenti, alcuni migranti ospitati nelle strutture di accoglienza hanno indirizzato una lettera alle istituzioni, lamentando le condizioni di sovraffollamento dei centri e l’impossibilità di assicurare le misure di distanziamento per la prevenzione del contagio.
Particolarmente problematica è evidentemente la situazione della Grecia. Sulla terraferma, è stato disposto l’isolamento di due centri (Malakasa e Ritsona), dopo che sono emersi i primi contagi da coronavirus. Sulle isole dove, in campi destinati ad accogliere alcune migliaia di persone, sono “ospitati” circa 40.000 migranti in condizioni di promiscuità, sovraffollamento e precarie condizioni igienico-sanitarie, le autorità hanno applicato misure ulteriormente restrittive della libertà di movimento. A seguito della richiesta formulata dal Commissario UE per gli Affari interni Ylva Johansson, con il supporto di IOM e UNHCR, dal 19 aprile è stato attuato almeno il trasferimento di circa 2500 “persone vulnerabili” (con più di 60 anni o con precedenti patologie) dai campi sulle isole dell’Egeo ad appartamenti, alberghi e altri campi sulla terraferma. Una situazione di grave criticità riconosciuta anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, il 16 aprile, ha accordato misure cautelari (ex art. 39 regolamento della Corte) volte a consentire l’immediato trasferimento dal campo di Moira sulla terraferma dei ricorrenti, particolarmente vulnerabili (caso E.I. e altri c. Grecia ). Ma si tratta di misure temporanee e largamente insufficienti ad alleviare la grave situazione, ulteriormente acuita dall’emergenza sanitaria in corso, in cui versano decine di migliaia di migranti, in molti casi collocati nei campi dalla crisi migratoria del 2015-2016.
Occorre ricordare che la direttiva 2013/33/UE (“direttiva accoglienza”) impone agli Stati membri di assicurare “un’adeguata qualità di vita”, idonea a tutelare la salute fisica e mentale dei richiedenti ed adeguata alla specifica situazione delle persone vulnerabili (art. 17, par. 2). Sempre la direttiva, all’art. 19, richiede agli Stati membri di provvedere affinché “i richiedenti ricevano la necessaria assistenza sanitaria”. Al fine di garantire il rispetto delle suddette previsioni nel contesto emergenziale in corso, la Commissione ha fornito alcune raccomandazioni. Essa ha suggerito la predisposizione di appositi protocolli sanitari, che prevedano misure di distanziamento spaziale e interpersonale volte a ridurre la trasmissione del contagio, lo screening dei richiedenti più esposti a rischio (anziani e affetti da malattie croniche), l’utilizzo di mascherine, l’isolamento per i positivi, l’adozione di misure di sanificazione dei locali e l’eventuale imposizione di un periodo di quarantena di 14 giorni per tutti i nuovi arrivati. Laddove i centri di accoglienza risultassero sovraffollati, i richiedenti dovrebbero possibilmente essere trasferiti in altre strutture, al fine di ridurre il tasso di occupazione dei centri.
Quanto alle misure di quarantena o isolamento applicate da molti Stati membri, sebbene non siano contemplate dalla direttiva accoglienza, e fermo restando che modalità relative alle condizioni materiali di accoglienza diverse da quelle previste nella direttiva sono consentite solo in casi debitamente giustificati, in via eccezionale e per un periodo ragionevole e di durata più breve possibile (art. 18, par. 9), la Commissione europea le ha ritenute applicabili nei confronti dei richiedenti protezione internazionale, in base al diritto nazionale, purché tali misure siano ragionevoli, proporzionate e non discriminatorie.
di Alessia Di Pascale, Ricercatrice Settore Legislazione Fondazione ISMU
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[1] La “zona UE+” è stata riferita a tutti gli Stati membri dell’area Schengen (compresi Bulgaria, Croazia, Cipro e Romania) e i quattro Stati associati, nonché l’Irlanda e il Regno Unito qualora questi ultimi decidano di allinearsi.