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L’accoglienza dei profughi ucraini nell’Unione europea

Tra le gravi conseguenze dell’offensiva militare avviata dalla Russia in Ucraina il 24 febbraio, vi è anche l’esodo senza precedenti di persone in fuga, il più veloce dalla seconda guerra mondiale, come ha rilevato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. In meno di due settimane (tra il 24 febbraio e l’8 marzo), più di due milioni di persone sono scappate dalla guerra e sono giunte nell’Unione europea, attraversando i confini dei Paesi limitrofi, che hanno consentito il passaggio delle loro frontiere limitando al minimo i controlli. Il 2 marzo la Commissione aveva, infatti, ricordato agli Stati membri le disposizioni del Codice frontiere Schengen (art. 9), che consentono di snellire le verifiche alle frontiere esterne, in seguito a circostanze eccezionali e impreviste (allorché eventi imprevedibili provocano un’intensità di traffico tale da rendere eccessivi i tempi di attesa ai valichi di frontiera e sono state sfruttate tutte le risorse in termini di organizzazione, di mezzi e di personale). Una volta varcato il confine i profughi hanno ricevuto un’enorme solidarietà da parte delle popolazioni locali e di volontari, che hanno fornito supporto per alloggio, trasporto, cibo, donazioni finanziarie e donazioni materiali.

La gran parte degli sfollati per il momento si è concentrata nell’area (soprattutto in Polonia e Moldavia, ma anche Ungheria, Romania e Slovacchia). Se il conflitto continuasse nei prossimi mesi, il Commissario europeo per la cooperazione internazionale, gli aiuti umanitari e la risposta alle crisi ha prospettato che le persone in fuga potrebbero diventare addirittura sette milioni. Flussi tanto rapidi e ingenti verso l’Unione europea (come ha sottolineato la Commissaria agli affari interni intervenendo l’8 marzo davanti al Parlamento europeo: “in dodici giorni abbiamo ricevuto due milioni di rifugiati. Lo stesso numero di persone giunte complessivamente nell’Unione europea durante il 2015 e il 2016. In dodici giorni”) pongono evidenti problemi di sostenibilità per i sistemi di asilo, per l’esame di eventuali di domande di protezione e per l’accoglienza (è stato calcolato che allo stato attuale i costi sarebbero di 23 miliardi l’anno), tanto più se la grave situazione nel Paese dovesse protrarsi a lungo, stemperandosi l’enorme e spontanea ondata di sostegno che ha coinvolto tutti i cittadini degli Stati membri.

Con l’intento di fronteggiare rapidamente tale situazione senza precedenti nel dopoguerra, i ministri degli interni di 26 Stati membri, nel corso della riunione del Consiglio dell’Unione europea svoltasi a Bruxelles il 4 marzo, hanno dato attuazione, per la prima volta dalla sua adozione ben 21 anni fa, alla direttiva sulla “protezione temporanea”, approvando all’unanimità la decisione di esecuzione (UE) 2022/382 (a norma degli artt.1 e 2 del protocollo n. 22 sulla posizione della Danimarca, allegato al trattato sull’Unione europea e al trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la Danimarca non ha partecipato all’adozione della decisione, non è da essa vincolata, né è soggetta alla sua applicazione). Occorre precisare che non si tratta di una nuova forma di protezione coniata appositamente, bensì insieme allo status di rifugiato (fondato sulla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati, modificata dal protocollo di New York del 31 gennaio 1967) e alla protezione sussidiaria, la protezione temporanea costituisce una terza specie di protezione “europea”, prevista dall’art. 78 Tfue. Su questa base (più precisamente fondandosi sul precedente art. 63 punto 2, lettere a) e b) TCE), la direttiva 2001/55/CE, adottata il 20 luglio 2001, aveva istituito una procedura di carattere eccezionale che garantisce, proprio nei casi di afflusso massiccio, o di imminente afflusso massiccio, di sfollati provenienti da Paesi terzi, che non possono rientrare nel loro Paese d’origine, una tutela immediata e temporanea, da adottarsi in particolare qualora vi sia il rischio che il sistema d’asilo non possa far fronte a tale afflusso senza effetti pregiudizievoli per il suo corretto funzionamento.

Ai sensi dell’art. 2 dir. 2001/55, sono da intendersi come sfollati “i cittadini di Paesi terzi o apolidi che hanno dovuto abbandonare il loro Paese o regione d’origine o che sono stati evacuati, ed il cui rimpatrio in condizioni sicure e stabili risulta impossibile a causa della situazione nel Paese stesso, anche rientranti nell’ambito d’applicazione dell’articolo 1A della convenzione di Ginevra o di altre normative nazionali o internazionali che conferiscono una protezione internazionale”. In presenza delle suddette condizioni, sono senz’altro da ritenersi sfollati “quanti siano fuggiti da zone di conflitto armato o di violenza endemica” (art. 2, lett. c), i). Si tratta, in effetti, di una terza forma di protezione internazionale istituita alla luce dell’esperienza degli sfollati provenienti da situazioni di conflitto nella ex Iugoslavia negli anni novanta (proprio in considerazione di quelle drammatiche vicende che avevano coinvolto il continente europeo, era stato il primo strumento adottato nel settore dell’asilo, successivamente all’avvio di una competenza comunitaria in questo ambito nel 1999). Per il suo carattere di eccezionalità e per le preoccupazioni che aveva suscitato da parte di vari Stati membri (anche quanto alla possibilità che potesse costituire un pull-factor dei flussi migratori) finora non era mai stata applicata, tanto che la Commissione ne aveva ipotizzato l’abrogazione sostituendola con un nuovo meccanismo applicabile alle situazioni di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo, proposto nell’ambito del nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo del 2020. Nonostante fosse già stata invocata in passato (dall’Italia in occasione della “primavera araba” nel 2011, ma da varie parti anche rispetto alla guerra in Siria), non si era mai raggiunto l’accordo politico necessario.

È, infatti, previsto un particolare meccanismo di attivazione: l’esistenza di un afflusso massiccio di sfollati deve essere accertata con decisione del Consiglio dell’Unione europea (l’istituzione UE che riunisce i ministri degli Stati membri competenti per materia, diversamente dal Consiglio europeo), adottata a maggioranza qualificata su proposta della Commissione (alla quale può parimenti essere presentata una richiesta dagli Stati membri affinché sottoponga al Consiglio una proposta in tal senso). Ove adottata (come appunto avvenuto il 4 marzo), la decisione del Consiglio determina, per gli sfollati ai quali si riferisce (i gruppi specifici di persone devono essere indicati nella decisione), l’applicazione della protezione temporanea in tutti gli Stati membri. Tale status viene attribuito sulla base di procedure definite a livello nazionale, che non comportano una valutazione circa la sussistenza dei criteri per il riconoscimento dell’asilo o della protezione sussidiaria, ma solo l’accertamento circa l’effettiva appartenenza alle categorie beneficiarie e l’assenza di condizioni ostative, riconducibili a ragioni di pericolosità e sicurezza (evitando, così, il rischio di sovraccarico dei sistemi di asilo degli Stati membri, in quanto le formalità sono ridotte al minimo in considerazione della situazione d’urgenza). Lo status di protezione temporanea, in modo uniforme in tutti gli Stati membri, comprende un complesso di diritti, tra l’altro, in relazione ai permessi di soggiorno accordati ai beneficiari (art. 8), all’accesso al lavoro (art. 12), all’alloggio (art. 13), all’istruzione per i minori (art. 14), al ricongiungimento familiare (art. 15). Una delle previsioni più significative consiste nella possibilità di trasferire gli sfollati in altri Stati: finché dura la protezione temporanea, gli Stati membri sono, infatti, tenuti a cooperare tra loro per il trasferimento delle persone che godono della protezione temporanea da uno Stato membro all’altro, a condizione, però, che le persone interessate abbiano espresso il loro consenso a tale trasferimento. La direttiva opera, in proposito, un espresso e chiaro richiamo allo spirito di solidarietà (cui è dedicato il Capo VI della direttiva): ad esso gli Stati membri dovrebbero ispirarsi, non solo nel dare accoglienza ai beneficiari della protezione, ma anche nei loro reciproci rapporti. Ed a tal fine la direttiva definisce anche la modalità della cooperazione amministrativa: ciascuno Stato membro è tenuto a designare un punto di contatto nazionale e a trasmettere periodicamente i dati relativi al numero delle persone che godono della protezione temporanea, nonché qualsiasi informazione sulle disposizioni nazionali legislative, regolamentari ed amministrative attinenti all’attuazione della protezione stessa.

Trattandosi di una forma di protezione a carattere eccezionale, la protezione temporanea dura fino al momento in cui venga trovata una soluzione a lungo termine, che consenta il rimpatrio dei beneficiari (i quali devono, però, poter essere in grado di presentare in qualsiasi momento una domanda d’asilo nel Paese che ha accettato il trasferimento della persona nel proprio territorio). Ha, quindi, una durata limitata nel tempo, pari a un anno, prorogabile automaticamente di sei mesi in sei mesi per un periodo massimo di un altro anno. Se continuano a persisterne i presupposti il Consiglio, su proposta della Commissione, può nuovamente deliberare a maggioranza qualificata la proroga della protezione per un altro anno (art. 4). Complessivamente la protezione temporanea può, quindi, durare fino a tre anni. Con il raggiungimento di questo termine massimo, la protezione temporanea cessa, sempre che nel frattempo il Consiglio, a maggioranza qualificata, non abbia adottato una decisione di cessazione della protezione. Può farlo in qualsiasi momento, decidendo su proposta della Commissione (eventualmente su richiesta di uno o più Stati membri), ove sia accertato che la situazione nel Paese d’origine consente un rimpatrio sicuro e stabile delle persone cui è stata concessa la protezione temporanea, nel rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché degli obblighi degli Stati membri in materia di non respingimento (art. 6).

Quando la protezione temporanea giunge al termine, se le persone non possono beneficiare dell’ammissione, si provvede al rimpatrio, previo esame di eventuali impellenti ragioni umanitarie che possono rendere impossibile o non ragionevole il rimpatrio in casi concreti (art. 22). Condizioni di soggiorno possono, in particolare, essere adottate in ragione dello stato di salute, laddove non ci si possa ragionevolmente attendere che le persone siano in condizioni di viaggiare (ad esempio, nel caso in cui l’interruzione del trattamento causerebbe loro gravi ripercussioni negative) e nei confronti delle famiglie con minori che frequentano la scuola in uno Stato membro, ai quali può essere consentito di portare a termine il periodo scolastico in corso (art. 23).

La direttiva è stata recepita in Italia con il D .lgs. 7.4.2003, n. 85, che ne disciplina le modalità di attuazione, prevedendo in particolare che le misure di protezione temporanea, utili a fronteggiare l’afflusso massiccio di sfollati accertato dal Consiglio dell’Unione europea, siano stabilite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (D.P.C.M.), adottato ai sensi  dell’art. 20 del testo unico delle  disposizioni concernenti  la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. Il D.P.C.M deve contenere, tra l’altro, la data di decorrenza della protezione temporanea, le categorie di sfollati ammessi alla protezione, la disponibilità ricettiva per l’accoglienza degli sfollati e le procedure per il rilascio del permesso di soggiorno esteso allo studio e al lavoro, quelle relative alla disciplina degli eventuali ricongiungimenti familiari e alla registrazione dei dati personali degli sfollati. Occorre sottolineare che, come puntualizzato all’art. 4, c. 1, lett. e) D. lgs, 85/2003, del numero dei permessi di soggiorno rilasciati si tiene conto nell’adozione del decreto flussi annuale. Pertanto, la concessione della protezione temporanea potrebbe avere delle ripercussioni sui nuovi ingressi per motivi di studio/lavoro. Gli Stati membri sono tenuti a consentire alle persone che godono della protezione temporanea, per un periodo non superiore alla durata di quest’ultima, di esercitare qualsiasi attività di lavoro subordinato o autonomo, nel rispetto della normativa applicabile alla professione, nonché di partecipare ad attività nell’ambito dell’istruzione per adulti, della formazione professionale e delle esperienze pratiche sul posto di lavoro. Per quanto riguarda i minori di 18 anni, l’obbligo si estende all’accesso al sistema educativo al pari dei cittadini dello Stato membro ospitante. L’accesso per i maggiorenni è rimesso alla discrezionalità degli Stati membri. Le modalità specifiche per l’esercizio dei diritti spettanti ai beneficiari della protezione internazionale, così come per presentare la richiesta, sono pertanto rimesse alla definizione da parte del suddetto D.P.C.M. Nel frattempo, con ordinanza del dipartimento della protezione civile del 4 marzo, è stato precisato che  lo svolgimento di attività lavorativa sia in forma subordinata, anche stagionale, che autonoma sarà consentita alle persone provenienti dall’Ucraina a seguito della crisi in atto, sulla base della sola richiesta di permesso di soggiorno presentata alla competente Questura. Sarà, in ogni caso, importante il coordinamento con le disposizioni del D.P.C.M. La Commissione europea ha, in aggiunta, annunciato la pubblicazione di linee guida per consentire un’applicazione coordinata tra gli Stati membri della direttiva 2001/55.

La scelta operata dall’Unione europea, di dare finalmente attuazione ad uno strumento rimasto lettera morta per vent’anni, costituisce un dato di indubbio interesse. Certamente essa testimonia un approccio finalmente unitario e coeso degli Stati membri, data l’approvazione all’unanimità (sarebbero stati sufficienti 15 Stati membri per attuarla), ma non è detto che possa riflettersi sulle future scelte dell’Unione europea nella materia migratoria, che restano fortemente contraddistinte da un approccio restrittivo. Né, del resto, le divisioni possono dirsi cessate: se tutti gli Stati membri hanno convenuto sull’opportunità di applicare la protezione temporanea ai cittadini ucraini in fuga dalla guerra, i Paesi del gruppo di Visegrád e l’Austria si sono, invece, opposti ad un’ulteriore estensione. La decisione approvata costituisce, in effetti, l’esito di un compromesso rispetto alla proposta della Commissione, che ne aveva previsto l’applicazione anche ai cittadini di Paesi terzi o apolidi legalmente residenti in Ucraina e che non fossero in grado di ritornare in condizioni sicure e durevoli nel Paese o regione d’origine (tale ultimo requisito neppure applicabile ai soggiornanti di lunga durata). Nel testo finale, la protezione temporanea si applicherà alle persone che sono sfollate dall’Ucraina a partire dal 24 febbraio 2022 che siano: a) cittadini ucraini residenti in Ucraina prima del 24 febbraio 2022; b) apolidi e cittadini di Paesi terzi diversi dall’Ucraina che beneficiavano di protezione internazionale o di protezione nazionale equivalente in Ucraina prima del 24 febbraio 2022 e c) familiari delle persone di cui alle lettere a) e b). Gli Stati membri sono, inoltre, tenuti ad applicare la decisione o una protezione adeguata ai sensi del loro diritto nazionale nei confronti degli apolidi e dei cittadini di Paesi terzi diversi dall’Ucraina che possono dimostrare che soggiornavano legalmente in Ucraina prima del 24 febbraio 2022 sulla base di un permesso di soggiorno permanente valido rilasciato conformemente al diritto ucraino e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel proprio Paese o regione di origine. È invece solo facoltativa (con prevedibili differenze tra Stati membri), l’estensione della protezione temporanea ad altre persone, compresi gli apolidi e i cittadini di Paesi terzi diversi dall’Ucraina, che soggiornavano legalmente in Ucraina e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel proprio Paese o regione di origine. Un tema di rilievo, dato l’alto numero di studenti universitari stranieri nel Paese (quasi 80.000 nel 2020, soprattutto provenienti da Africa e India) e di lavoratori, per i quali sono stati denunciati trattamenti discriminatori e gravi difficoltà nel partire.

È, invece, positivo che gli Stati membri abbiano convenuto (in una dichiarazione allegata alla decisione di esecuzione (UE) 2022/382) di non applicare l’art. 11 della direttiva 2001/55/CE (che prevede l’obbligo di riammissione di una persona del titolare della protezione temporanea nel proprio territorio qualora essa soggiorni o tenti di entrare illegalmente nel territorio di un altro Stato membro nel periodo previsto dalla decisione del Consiglio) in relazione alle persone che godono della protezione temporanea in un determinato Stato membro, e che si trasferiscono in un altro Stato membro senza autorizzazione, salvo diverso accordo tra Stati membri su base bilaterale. Si tratta di un modo di attuare una redistribuzione delle persone nella pratica (appositamente nella decisione non è previsto alcun meccanismo di ricollocamento), così sostenendo “gli Stati membri che costituiscono i principali punti di ingresso dell’afflusso massiccio di sfollati dall’Ucraina che fuggono dalla guerra, oggetto della decisione di esecuzione del Consiglio del 4 marzo 2022, e di promuovere l’equilibrio degli sforzi tra tutti gli Stati membri”. Occorre ricordare che l’Ucraina figura nell’elenco di cui all’allegato II del regolamento (UE) 2018/1806 e i cittadini ucraini sono esenti dall’obbligo del visto all’atto dell’attraversamento delle frontiere esterne degli Stati membri per soggiorni la cui durata globale non sia superiore a 90 giorni su un periodo di 180 giorni. I cittadini ucraini, in quanto viaggiatori esenti dall’obbligo di visto, hanno quindi il diritto, dopo essere stati ammessi nel territorio, di circolare liberamente all’interno dell’Unione per un periodo di 90 giorni e su tale base possono scegliere lo Stato membro in cui intendono godere dei diritti connessi alla protezione temporanea e raggiungere i familiari e gli amici attraverso le importanti reti delle diaspore attualmente esistenti in tutta l’Unione (al 1° gennaio 2022 risultano regolarmente residenti in Italia circa 235.000 cittadini ucraini, la quinta comunità straniera, la seconda diaspora nell’UE, dopo la Polonia che ospita tra 1 e 2 milioni di cittadini ucraini). Qualora si spostassero dopo aver ottenuto la protezione temporanea, esse resterebbero legittimate ad avvalersi dei diritti derivanti dal suddetto status solo nello Stato membro che ha rilasciato il titolo di soggiorno, ma ciò non pregiudicherebbe la possibilità di uno Stato membro di decidere di rilasciare in qualsiasi momento un titolo di soggiorno (considerando 16). Si tratterebbe presumibilmente di un titolo fondato su norme nazionali.

Al di là del carattere sempre più restrittivo delle misure recentemente proposte nell’ambito migratorio nell’Unione europea, e degli obiettivi di contenimento da esse sottese, in passato non era mai stato possibile attuare la direttiva sulla protezione temporanea, in quanto la decisione necessaria costituisce un atto politico che presuppone un consenso largamente condiviso tra gli Stati membri e fino ad oggi era prevalsa diversità di visioni anche in occasione di afflussi massicci. L’approvazione all’unanimità il 4 marzo, seppur con alcuni distinguo in relazione ai cittadini di Paesi terzi che vivono in Ucraina, costituisce, quindi, anche un segnale politico alla Russia. Resta da vedere se debba essere ascritto alla ritrovata unità di fronte alla grave minaccia, a cui è esposto il continente europeo, oppure possa aprire la strada ad una rinnovata visione delle politiche migratorie, specialmente ove esse riguardino persone in fuga da regimi e situazioni di conflitto cruente e drammatiche.

Alessia Di PascaleCollaborazione scientifica settore Europa, Africa e Paesi terzi e Settore Legislazione Fondazione ISMUProfessore associato di diritto dell’Unione europea – Università degli Studi di Milano

11 marzo 2022