Come regolarmente accade con elezioni tenute con un sistema proporzionale, anche nel caso del rinnovo della camera bassa del Parlamento federale tedesco dello scorso 26 settembre la stampa internazionale ha visto frustrata la sua spasmodica aspirazione ad annunciare istantaneamente il “vincitore” della competizione elettorale. In linea con quanto anticipato da praticamente tutti i commentatori durante tutta la campagna elettorale, serviranno in realtà diversi mesi per sapere quale maggioranza guiderà il paese per i prossimi quattro anni, tanto che Angela Merkel avrà probabilmente l’opportunità di tenere un ultimo discorso di Natale alla nazione in quanto cancelliere uscente ancora in carica.
Dunque, mentre l’attenzione mediatica estera prevedibilmente scemerà di fronte a tempistiche così inadeguate ai ritmi fisiologicamente incalzanti del ciclo dell’informazione, le forze politiche tedesche saranno impegnate in trattative serrate che porteranno alla formazione di una delle possibili coalizioni che potranno sostenere il futuro governo federale. Ci prepariamo dunque allo sporadico riaffiorare all’attenzione pubblica europea delle ipotesi di coalizioni “semaforo”, “rosso-rosso-verde”, “Jamaica”, “Kenya” – legate ai colori comunemente assegnati ai vari partiti: rosso per il Partito socialdemocratico, nero per il Partito cristiano-democratico (e il gemello Partito cristiano-sociale bavarese), il verde eponimo del partito ecologista, giallo per il Partito liberale e (tanto per complicare il singolare arcobaleno) ancora rosso per La Sinistra, ai quali si aggiunge la cromaticamente indistinta Alternativa per la Germania. Al momento in cui si scrive, l’unica opzione quasi universalmente esclusa è quella della “grosse Koalition” fra socialdemocratici e cristiano-democratici, mentre aumentano le quotazioni dell’inusitata coalizione “sociale-ecologica e liberale”, che includerebbe i partiti che hanno ottenuto i maggiori incrementi dei propri seggi in parlamento: 53 per i socialdemocratici (corrispondenti a un aumento dei consensi del 5,2%), 51 per i verdi (+5,8%), 12 per il liberali (+0,7%), in gran parte alle spese della CDU, che ha perso quasi il 9% dei voti, ma anche della Linke (-4,3%) e della stessa Alternative für Deutschland (-2,3%), i cui consensi, tradizionalmente concentrati nei Länder orientali, sono diminuiti per lo più a favore della SPD. I tempi necessari alla costruzione di una coalizione “a tre” – la cui difficoltà è comprovata dal fallimento di un tentativo analogo effettuato nel 2017 – potrebbero esasperare ulteriormente le divisioni presenti all’interno del Partito cristiano-democratico, rendendo ancor più drammatica la possibile fine della sua egemonia sul sistema politico tedesco. Questo passaggio storico è legato, inutile dirlo, al ritiro dall’attività politica (perlomeno nazionale) di Angela Merkel, decisione che tutt’ora genera interrogativi enormi rispetto alla capacità di chiunque conquisterà la cancelleria di continuare a esercitare, in qualche misura, la funzione di guida a livello nazionale, europeo e globale che Merkel aveva saputo egregiamente svolgere, pur con numerosi limiti e ambiguità – quali il suo approccio ormai proverbialmente attendista rispetto ai problemi da affrontare sia a livello interno che europeo, una certa mancanza di visione politica ad ampio raggio e la resistenza inerziale rispetto alla revisione dei propri orientamenti politici e valoriali. Peraltro, la questione della “carica carismatica” del prossimo cancelliere è stata oggetto di dibattito già in campagna elettorale, dato che i candidati dei due maggiori partiti, Olaf Scholz (SPD) e Armin Laschet (CDU), sono al momento largamente percepiti come “politici di apparato”, a differenza ad esempio della candidata dei Verdi Annalena Baebock (anche se va tenuto conto che nemmeno Merkel all’inizio dei suoi mandati pareva dotata di grande personalità).
4 ottobre 2021
Antonio Zotti, ricercatore settore Europa, Africa e Paesi Terzi Fondazione ISMU