Sicurezza (pubblica) e diritto alla mobilità (individuale) sono apparsi, durante l’emergenza sanitaria, come i due poli di un irrisolto braccio di ferro. In un dibattito condito da richiami alle esigenze dell’economia e del consenso politico, a restare in ombra è uno degli effetti più gravi del blocco della mobilità transnazionale: la rarefazione delle opportunità di migrazione legale e, ciò che è ancor più drammatico, la sospensione, di fatto, del diritto a richiedere asilo. Particolarmente esposte al rischio di contagio, per via della loro situazione precaria, le persone in cerca di protezione si sono trovate a fare i conti con la chiusura generalizzata delle frontiere che, come denunciato dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, ha dato nuova linfa alle pratiche di respingimento e detenzione, e reso spesso impossibile presentare domanda d’asilo. Tutto ciò mentre le operazioni di reinsediamento dei rifugiati subivano uno stallo, e quelle di soccorso in mare e lungo le rotte terrestri si facevano ancor più difficili e complesse. A non accusare gli effetti della pandemia è invece il sistema dello smuggling e trafficking che anzi, come segnala un report dell’UN Office on Drugs and Crimes, potrebbe addirittura avvantaggiarsi dall’ulteriore ampliamento della forbice tra il numero di coloro che fuggono da situazioni di pericolo – dalla Libia piuttosto che dai paesi del Centro America travolti dalla violenza e dalla crisi economica – e le possibilità di migrare in sicurezza.
Nel recente passato, l’obiettivo di contenere il volume di richiedenti asilo ha sovente assunto, beffardamente, le sembianze di un richiamo all’aggettivo “sicuri” applicato ai paesi terzi eretti a gendarmi delle frontiere europee, ancorché sia evidente come, in molti casi, si tratti di paesi tutt’altro che sicuri per chi cerca protezione. Nel quadro disegnato dalla pandemia, è di nuovo attorno all’ambiguità del concetto di sicurezza che si gioca una partita che, per molti, è quella tra la vita e la morte: è in nome dei porti “non più sicuri” per via del Covid-19 che, ad esempio, si sono fortemente limitate le operazioni di soccorso in mare. E perfino in un paese come Canada, spesso additato a modello nella gestione dei rifugiati, il principio del “safe third country” rischia oggi di compromettere l’esercizio del diritto d’asilo proprio per i migranti privi dei capitali culturali, economici e relazionali che aprono l’accesso agli ingressi sponsorizzati; circostanza che ci fa comprendere come attorno al delicato equilibrio tra sicurezza e diritto alla mobilità si delineino scenari allarmanti.
Nell’esperienza canadese, coloro che chiedono asilo dopo essere approdati sul suolo nazionale (ciò che è la norma in Italia) sono una minoranza composta soprattutto da migranti centro-sud-americani che riescono ad attraversare la frontiera con gli USA senza subire alcun controllo – 16.500 nel 2019 – così eludendo il vincolo sancito dall’accordo tra USA e Canada che impone (analogamente all’accordo di Dublino tra Stati europei) di presentare la domanda d’asilo nel primo paese attraversato. Si tratta di persone che si guadagnano l’accesso al sistema di protezione canadese “saltando la coda”. Una possibilità rimasta in vigore anche dopo il blocco della mobilità transfrontaliera (a fronte dell’azzeramento dei reinsediamenti di rifugiati dall’estero), ma solo fintanto che una campagna social – di nuovo in nome della “sicurezza” rispetto ai rischi di contagio – non ha obbligato il primo ministro a sospenderla. Sebbene il provvedimento assunto da Justin Trudeau sia stato annunciato come temporaneo e giustificato dalla pandemia, esso rischia di segnare un punto di non ritorno – specie nell’evenienza di un futuro cambio di governo – sdoganando la soluzione del respingimento verso gli Stati Uniti.
L’insofferenza verso i richiedenti “irregolari”, come sono polemicamente definiti, è infatti un sentimento diffuso nell’elettorato canadese, insieme all’insoddisfazione nei confronti di un accordo che si ritiene consenta ampi margini di aggiramento, producendo un numero insostenibile di richiedenti asilo. Una situazione speculare a quella registrata in Europa durante la recente crisi dei rifugiati che ha generato accuse (e numerosi respingimenti) nei confronti dell’Italia, rea di lasciarsi attraversare da un flusso di “clandestini” in marcia verso il Nord Europa.
Per quanto discutibile, il principio del paese terzo sicuro è quasi inevitabile per permettere la sostenibilità del sistema internazionale di protezione. Più che il principio in sé, è la sua applicazione a dover essere discussa, specie laddove vi siano dubbi sull’effettiva “sicurezza” dei paesi con cui si fanno accordi (che molti osservatori mettono in dubbio proprio nel caso degli USA). E specie laddove essa tradisce l’asimmetria di atteggiamenti verso il presidio dei confini: va da sé, ad esempio, che l’America di Trump non ha alcun interesse a rafforzare il suo impegno nel controllo della sconfinata frontiera che la separa dal Canada, quello stesso impegno che invece pretenderebbe dal governo messicano.
Sul fronte canadese, non manca chi propone un rafforzamento capillare dei controlli lungo il confine, benché si tratti di un progetto velleitario. Considerazioni sui vantaggi demografici ed economici dell’immigrazione si contrappongono ad altre relative al suo presunto impatto culturale nefasto sull’identità della società canadese e sugli stessi assunti di una politica migratoria tradizionalmente orientata a selezionare i soggetti più produttivi. Ed è proprio il contenuto di questi argomenti a suggerire un’analogia con le vicende nostrane. Qui come là si fa strada l’idea che, per conquistarsi il diritto ad essere accolti, anche i richiedenti asilo dovrebbero essere economicamente vantaggiosi, culturalmente integrabili, demograficamente proficui. Un’idea che risponde più alla nostra sicurezza che non ai bisogni di protezione. È invece prendendo le distanze dalle logiche selettive che informano il governo della mobilità umana che metteremo davvero al sicuro la nostra identità: quella europea e quella di una grande democrazia come il Canada. Decidendo se un paese terzo merita l’appellativo di sicuro in base alla sua reale capacità di garantire sicurezza ai più fragili. Ed accogliendo innanzitutto i più vulnerabili tra i vulnerabili, senza chiederci quanto ci convenga.
di Laura Zanfrini, Responsabile Settore Economia e Lavoro e CeDoc, Fondazione ISMU
Milano, 10 giugno 2020