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I capi di Stato e di governo dell’UE si sono riuniti a Bruxelles, in una sessione straordinaria del Consiglio europeo, il 9 febbraio 2023. Ai sensi dell’art. 15, par. 3, del Trattato sull’Unione europea (“TUE”), il Consiglio europeo si riunisce ordinariamente due volte a semestre, su convocazione del presidente. Ma se la situazione lo richiede, il presidente convoca una riunione straordinaria. La riunione ordinaria è, in effetti, già fissata per il 23-24 marzo, ma è stato evidentemente ritenuto necessario anticipare la trattazione di alcune questioni apparse come improcrastinabili. Il summit ha affrontato all’apertura la situazione in Ucraina, alla presenza del presidente Zelenskyy, e la situazione economica, mentre in chiusura è stato discusso anche il dialogo tra Serbia e Montenegro (alla luce delle recenti tensioni nel nord del Kosovo), così come è stato ricordato il recente devastante terremoto che ha colpito la Turchia e la Siria. Significativamente, dopo che negli anni scorsi il tema era stato un po’ accantonato in favore di altre più pressanti emergenze (COVID, energia), l’immigrazione è tornata tra le priorità dell’UE. All’esito del Consiglio europeo del 15 dicembre 2022, il presidente Michel aveva preannunciato che, dato il riscontrato aumento dei flussi migratori attraverso le rotte dei Balcani occidentali e del Mediterraneo, gli Stati membri avevano riavviato la discussione su questo tema ed era emerso “un chiaro accordo sull’intenzione di avere un dibattito approfondito in sede di Consiglio europeo il 9 e 10 febbraio. Ciò significa che dovremo preparare al meglio questo dibattito per essere in grado di fornire orientamenti utili su questo tema molto importante”[1]. Diverse e parimenti forti le pressioni, in tal senso. Da una parte, l’Austria e i Paesi Bassi hanno spinto per includere la migrazione nell’agenda del Consiglio europeo, inquiete per l’aumento dei c.d. movimenti secondari (come sono denominati nel lessico europeo gli spostamenti irregolari dei migranti all’interno dell’UE), dall’altra parte, i Paesi del sud Europa (tra cui l’Italia), più esposti alle frontiere esterne, hanno richiesto che il tema degli arrivi fosse riaffrontato a livello europeo.
È questo il dato probabilmente più rilevante di questo vertice, al di là dei risultati contingenti. Esso segna in primo luogo la ritrovata attenzione al tema. Ma di converso anche l’avvio di un conto alla rovescia decisivo per la riforma del sistema di asilo, attesa dal 2016. Allora la Commissione, nel contesto della c.d. crisi dei migranti, che investì l’UE nel mezzo del decennio scorso, annunciò l’intenzione di riformare il sistema comune europeo di asilo[2] (la cui seconda fase di modifica si era conclusa nel 2013), affrontandone le carenze strutturali. Tra la primavera e l’estate di quell’anno, essa presentò, quindi, sette proposte legislative. Il pacchetto comprendeva la rifusione del regolamento Dublino III e del regolamento Eurodac, una proposta di regolamento relativo alla creazione dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA), una proposta di regolamento che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’UE, una proposta di regolamento sulle qualifiche, la rifusione della direttiva sulle condizioni di accoglienza e una proposta di regolamento che istituisce un quadro dell’Unione per il reinsediamento.
Non finì bene, però. Non fu, infatti, possibile attuare la riforma avviata con l’obiettivo di superare quanto meno le più macroscopiche aporie tra i sistemi di asilo nazionali, nonostante per cinque proposte (regolamento qualifiche, direttiva accoglienza, regolamento sull’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo, regolamento EURODAC, regolamento sul quadro europeo per il reinsediamento) i negoziati fossero ad uno stadio avanzato. Malgrado i numerosi richiami ad intensificare gli sforzi ai fini dell’adozione della riforma prima delle elezioni del Parlamento europeo (nel maggio 2019)[3], le divergenze tra gli Stati membri risultarono insuperabili e non fu accolta la proposta della Commissione di approvare i testi separatamente, prevalendo in seno al Consiglio un approccio c.d. a pacchetto (ovvero o tutti insieme o nessuno), che nel tentativo di sollecitare la riforma del più emblematico di quegli strumenti (il regolamento Dublino III), paralizzò di fatto l’azione. In tale scenario il tema della solidarietà e della ripartizione degli oneri restò un nodo cruciale ed irrisolto, mettendo ben in luce l’incapacità degli Stati membri di addivenire ad una posizione comune.
La promozione di un nuovo quadro giuridico comune per lo sviluppo delle politiche di asilo e immigrazione, comprensivo anche della riforma del c.d. sistema Dublino, ha poi costituito parte integrante ed essenziale del programma della Presidente della Commissione europea sin dalla sua designazione. Nel suo discorso di presentazione al Parlamento europeo, la allora candidata Ursula Von der Leyen[4], manifestò l’intenzione di proporre un nuovo Patto sull’immigrazione e l’asilo, che avrebbe incluso il rilancio della riforma del sistema Dublino. La pubblicazione, annunciata più volte dopo il suo formale insediamento, fu tuttavia rimandata per l’emergenza sanitaria ed ebbe infine luogo nel settembre 2020. I testi presentati non sostituivano, ma per lo più integravano, le proposte di riforma del 2016 ed anzi, per quelle ad uno stadio negoziale avanzato, la Commissione ne sollecitava la rapida adozione.
Nonostante la roadmap iniziale lasciasse ipotizzare il completamento della riforma entro il 2021, ad oggi solo il regolamento istitutivo della nuova agenzia europea per l’asilo[5] è stato adottato. In previsione dell’avvicinarsi del termine della legislatura in corso del Parlamento europeo (e del rischio che la riforma del sistema di asilo non veda la luce neppure questa volta), il 7 settembre la Presidente del Parlamento europeo insieme ai rappresentanti delle successive presidenze (Repubblica Ceca, Svezia, Spagna, Belgio) e di quella francese (che aveva appena concluso il proprio semestre) hanno firmato un accordo, definendo i termini per lo svolgimento dei negoziati tra co-legislatori, con l’obiettivo di portare a termine la riforma delle norme dell’UE in materia di migrazione e asilo[6] entro febbraio/marzo 2024 (termine ultimo per l’approvazione nella legislatura in corso)[7]. Risulta, allora, di tutta evidenza il significato politico di un vertice, convocato in sessione straordinaria a un anno esatto da quella scadenza, e che ha voluto riproporre al centro dell’agenda europea il tema della migrazione.
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Sul piano dei contenuti, i leader dei paesi UE hanno discusso di diversi aspetti legati all’immigrazione, tra cui la gestione dei confini, l’asilo e la protezione dei diritti fondamentali, con un focus marcatamente incentrato sulla c.d. dimensione esterna (cooperazione con i paesi terzi, controllo dei confini, rimpatri e riammissioni)[8], piuttosto che sugli aspetti interni, sui quali le visioni e le opinioni continuano evidentemente a divergere, in particolare per quanto attiene al tema della redistribuzione.
La riunione era stata, peraltro, preceduta da una lettera indirizzata dai primi ministri di Austria, Danimarca, Estonia, Grecia, Lituania, Malta, Lettonia e Slovacchia al Presidente del Consiglio europeo e alla Presidente della Commissione europea[9]. In essa si invocavano politiche europee più restrittive, sull’asserzione che “il sistema di asilo europeo e il suo bassissimo tasso di rimpatri costituiscono un fattore di attrazione”, e per questo motivo “i cittadini di Paesi terzi che non hanno bisogno di protezione internazionale continuano a rischiare la vita in pericolosi viaggi verso l’Europa”.
La lettera proponeva, quindi, di “rafforzare ulteriormente la protezione delle frontiere esterne, tenendo conto delle differenze tra frontiere terrestri e marittime, e sostenere gli Stati membri nei loro sforzi, compreso lo spiegamento di infrastrutture e la sorveglianza aerea pre-frontaliera per le frontiere marittime” e di “aumentare in modo significativo i rimpatri rapidi di cittadini di Paesi terzi che non soggiornano legalmente nell’UE. Utilizzando con determinazione tutti gli strumenti di leva – in particolare le politiche dei visti, del commercio e dello sviluppo – per migliorare e mantenere la cooperazione.”
Per quanto attiene agli aspetti relativi all’esternalizzazione, gli otto Paesi suggerivano di sviluppare accordi con Paesi terzi sicuri lungo il confine esterno dell’UE, citando quale modello la dichiarazione UE-Turchia. Si tratta della controversa dichiarazione del 2016 resa pubblica a margine del Consiglio europeo del 18 marzo 2016, con cui, al fine di arrestare i flussi lungo la rotta del Mediterraneo orientale, principale via di ingresso nell’Unione europea all’epoca, fu convenuto, quale misura temporanea e straordinaria[10], un programma di rimpatrio, controbilanciato dal correlativo impegno dell’Unione europea di reinsediare da quel Paese sul proprio territorio un cittadino siriano per ogni migrante rimpatriato. Sulla base di tale dichiarazione i migranti giunti irregolarmente sulle isole greche dalla Turchia a partire dal 20 marzo 2016, che non avessero presentato domanda d’asilo o la cui domanda fosse stata ritenuta infondata o non ammissibile ai sensi della direttiva sulle procedure di asilo, sarebbero stati rimpatriati in Turchia. Inoltre, si prevedeva che la Turchia avrebbe adottato qualsiasi misura necessaria per evitare nuove rotte marittime o terrestri di migrazione irregolare verso l’UE, collaborando con i paesi vicini, nonché con l’UE stessa a tale scopo. In contropartita, la UE si era impegnata a corrispondere, in due tranches, sei miliardi di euro alla Turchia[11].
Questi punti sono riflessi sostanzialmente nelle conclusioni[12], che quindi si concentrano fondamentalmente su rafforzamento dell’azione esterna, rimpatrio e riammissione, controllo delle frontiere esterne. La parola solidarietà è usata nel testo delle conclusioni solo con riferimento all’Ucraina, i temi più controversi della ripartizione degli oneri tra Stati membri e della redistribuzione delle persone arrivate nell’Unione europea non sono pertanto neanche abbozzati con dichiarazioni generiche e di circostanza. Le conclusioni operano solo un (limitato) richiamo alla necessità di proseguire i lavori relativi al patto sulla migrazione e l’asilo, che include anche la proposta di regolamento che dovrebbe sostituire l’attuale sistema Dublino.
Il Consiglio europeo ha, invece, ribadito la determinazione ad assicurare il controllo efficace delle frontiere esterne, riconoscendo le specificità delle frontiere marittime e ha sottolineato la necessità di una cooperazione rafforzata in ordine alle attività di ricerca e soccorso. In proposito, la presidenza svedese (in carica dal 1° gennaio)[13] ha annunciato l’intenzione di discutere, in occasione della prossima sessione del Consiglio “Giustizia e affari interni” del 9-10 marzo, da un lato dell’attuazione della tabella di marcia di Dublino, ma anche dell’impegno effettivo dell’UE alle frontiere esterne, anche da parte di “entità private”. Qui il riferimento è evidentemente alle azioni di salvataggio poste in essere dalle navi delle ONG.
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Ma al di là dei punti espressamente affermati nelle conclusioni, vale la pena soffermarsi “sul non detto” (o diplomaticamente smussato), ma che pure ha formato oggetto di discussione durante la riunione, così come contestualizzare la situazione più generale entro cui si è inserito questo vertice.